Il passato ora è il presente 15/10/2023
Analisi di Ben Cohen
Autore: Ben Cohen
Il passato ora è il presente
Analisi di Ben Cohen  

(traduzione di Yehudit Weisz)

https://www.jns.org/the-past-is-now-the-present/

L'insostenibile attualità dei pogrom - la Repubblica
Alcuni cadaveri del pogrom di Hamas


Quando ero bambino, la mia giovane mente frenetica e impaziente non riusciva mai a concentrarsi durante le visite settimanali alla sinagoga di Londra, la mia città natale, come forse ricordano mio padre e gli osservanti che sedevano nella nostra sezione. Per farmi tacere, mi veniva consegnata una pila di libri, per lo più sulla storia ebraica, che io avrei letto avidamente durante lo svolgimento della funzione. Quella lettura ha rappresentato, in tenera età, la mia prima introduzione all’antisemitismo sia come ideologia che come movimento politico. Ricordo di essermi sentito profondamente turbato dagli episodi di persecuzione che si sarebbero manifestati in queste pagine - i crociati che massacravano ebrei in Inghilterra e in Francia, gli inquisitori spagnoli che invadevano le case degli ebrei alla ricerca di coloro che celebravano lo Shabbat, i cosacchi di Chmielnicki che massacravano e torturavano interi villaggi ebraici, i contadini arabi che a Hebron tagliavano le gole agli ebrei - mentre allo stesso tempo ascoltavo la dolce cantilena del cantore, insieme ai suoni familiari della città pulsante del sabato mattina che entravano dalle finestre aperte. Quel che leggevo mi sembrava piuttosto strano. Ciò che vedevo e sentivo intorno a me sembrava tutto troppo normale, addirittura banale. E così meditavo  su me stesso: che tipo di ebreo sono? Sono un ebreo fortunato per essere nato in quest'epoca e non 100, 200, 500 anni fa? A volte, mi sono chiesto persino se ero un vero ebreo anche se non ho subito le prove, le tribolazioni e le dolorose sfide esistenziali affrontate dai miei antenati. Queste domande mi hanno assillato per tutta la mia vita da adulto. E poi, lo scorso fine settimana, ho raggiunto un po' di chiarezza. Dico “raggiunto”, ma forse è la parola sbagliata in queste circostanze. Ci è voluto il massacro bestiale perpetrato da Hamas e dagli squadroni della morte palestinesi che hanno invaso le comunità nel Sud di Israele – uccidendo, stuprando e sequestrando indiscriminatamente centinaia di ebrei – per darmi la percezione momentanea di cosa doveva essere stato essere ebreo nei secoli.

Alla base di questa presa di coscienza ci sono due ragioni. Innanzitutto, la natura della violenza: mentre scorrevo le immagini di adolescenti in lacrime e insanguinati e di genitori disperati, i ritratti sorridenti di famiglia che rappresentavano due o tre generazioni crudelmente spazzate via in un colpo solo, gli sms sconcertati e intrisi di paura che imploravano aiuto, la mia mente si è bloccata – come, l’ho scoperto subito dopo, è avvenuto a molti dei miei amici ebrei – sulla parola: pogrom. Perché questo era proprio un pogrom. Alla fine, io ero vivo su questa terra durante un vero pogrom, che riportava in vita con dettagli ripugnanti le storie che avevo letto da bambino! Naturalmente conoscevo i numerosi attacchi terroristici avvenuti durante la mia esistenza: il massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972; il devastante bombardamento del centro ebraico AMIA a Buenos Aires nel 1994; l'attentato suicida contro la pizzeria Sbarro a Gerusalemme nel 2001, appena un mese prima dell'11 settembre. Ma per quanto orribili fossero, si trattava di eventi moderni, riconoscibili anche da altri, in  contesti non israeliani. Ciò a cui abbiamo assistito lo scorso fine settimana è stato il tipo di violenza – forsennata, intima e assolutamente disumanizzante – che, ancora una volta, non è rivolta solo a vittime ebree, ma che le passate generazioni di ebrei conoscevano molto meglio della maggior parte degli altri. La seconda ragione dietro la mia comprensione era più personale. Sono diventato subito consapevole del mio legame con alcune delle vittime attraverso i messaggi di amici e familiari. Parenti in Israele mi informano che il nipote più grande di un amico ha perso la vita mentre era in servizio attivo con le Forze di Difesa Israeliane. Incertezza sul destino di una ragazza che era uscita con mio figlio minore e alcuni dei suoi amici durante il loro anno all'estero in Israele l'anno scorso, e che era andata al rave nel deserto che si era concluso con un'orgia omicida di stupri e assassinii. Un amico di New York City che stava guidando verso uno Shiva nel Nord dello Stato per commemorare un giovane e la  sua nipotina di 11 mesi, uccisi dai terroristi di Hamas davanti alla loro famiglia nel Kibbutz Be'eri, e che ha scattato, mentre si recava là, una foto di manifestanti ringhianti mentre sventolavano cartelli “Palestina libera”. E non sono l'unico. Questo è il punto. Non ho parlato con un solo ebreo nell'ultima settimana che non abbia un legame personale con una vita spenta da questi atti di violenza depravata. Lo siamo tutti noi, o almeno sembra che lo siamo tutti noi. Siamo stati toccati dallo spargimento di sangue e quel contatto ha lasciato un segno indelebile nella nostra coscienza. Ci sono molte questioni politiche che avrei potuto affrontare questa settimana. La doppia faccia dell’Unione Europea, che condanna le atrocità ma si oppone all’idea di congelare gli aiuti ai palestinesi. O i modi pratici in cui i Paesi occidentali dovrebbero aiutare il loro alleato israeliano; come ha affermato in modo memorabile Volker Beck, il capo della Società israelo-tedesca: “Invece di limitarsi a issare bandiere israeliane o coprire aerei con fogli blu e bianchi, ci si dovrebbe chiedere se e di quale aiuto Israele ha specificamente bisogno e vuole”.  O il ruolo sempre più globalizzato dell’Iran e delle sue forze armate a sostegno del terrorismo, dalla fornitura di droni d’attacco utilizzati dalle forze russe per uccidere i civili ucraini, al finanziamento e all’armamento di Hezbollah in Libano in modo che possano fare più o meno lo stesso con gli israeliani. E lo farò. Ma questa settimana, il peso della storia e della memoria è troppo opprimente per essere aggirato. È il passato, e il modo in cui quel passato si manifesta nel nostro presente, ad essere in primo piano e centrale. Nelle urla delle vittime, nelle loro richieste di aiuto, di fronte alle immagini brucianti dei morti, degli stuprati e dei rapiti – molti dei quali nostri preziosi figli – incontriamo anche le sofferenze dei nostri nonni e dei loro antenati. Quindi, per ora, cerchiamo di sanare queste ferite e uniamoci, senza paura o scuse, con l’IDF nel suo tentativo di distruggere Hamas e tutte le sue infrastrutture. E se le donne e gli uomini che combattono in Israele saranno vittoriosi, forse, può essere, in teoria, che il resto del mondo esprimerà loro non solo comprensione ma anche gratitudine.

Ben Cohen Writer - JNS.org
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate