Sotto l’albero delle giuggiole Gila Almagor
Traduzione di Paola M. Rubini
Acquario euro 15
Come Nava Semel, compianta autrice israeliana di romanzi di successo, Gila Almagor ha un legame speciale con l’Italia al punto che alle pareti della sua casa di Tel Aviv è appesa una foto di Anna Magnani. L’attrice italiana è stata per Gila una musa cui si è sempre ispirata nel suo lavoro.
Interprete di spicco del cinema e del teatro in Israele si è conquistata la fama internazionale di Sophia Loren israeliana; con oltre cinquanta film al suo attivo, è solo al culmine della carriera che Almagor decide di raccontare al pubblico la sua storia personale che è al contempo la storia di un paese appena costituito dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale.
Il suo primo romanzo, “L’estate di Aviha” pubblicato in Israele nel 1985, tradotto in venti lingue e adottato come testo nelle scuole dello Stato ebraico, ha avuto una pregevole trasposizione cinematografica nel 1988 per la regia di Eli Cohen, premiato con l’Orso d’argento al Festival di Berlino nel 1989, ed è arrivato in Italia nel 2021 grazie alla casa editrice Acquario. Ispirato alla vita dell’autrice il romanzo racconta l’estate di una bambina di dieci anni, Aviha, e della madre, una donna con disturbi mentali, in un villaggio di immigrati arrivati da poco dall’Europa nell’Israele degli anni Cinquanta.
A questo primo intenso lavoro che conferma l’autrice “Ho scritto di getto, come un fiume in piena che non potevo controllare…” è seguito nel 1992 “Sotto l’albero delle giuggiole”, in libreria in questi giorni per i tipi di Acquario, la casa editrice indipendente nata dall’impegno di Anna Foà e Marco Sodano con un progetto che mira ad esplorare diversi linguaggi.
Se il primo romanzo è stato scritto sotto una forte spinta emotiva, “Sotto l’albero delle giuggiole” è “il frutto di un processo di riflessione molto più lungo e articolato” e racconta il prosieguo della storia di Aviha, alter ego dell’autrice, nel suo percorso adolescenziale, quando era ospite di Udim, un villaggio scuola non lontano da Tel Aviv, fondato nel 1948 per accogliere bambini e ragazzi dispersi o orfani della Shoah.
Nel secondo romanzo, dove l’albero delle giuggiole è il testimone silenzioso del processo di crescita di questi giovani che stanno entrando nell’età adulta, il passo narrativo cambia: dalla dimensione intima di una storia familiare che ha al centro il dramma di una bambina orfana di padre e con una madre con disturbi psichici, si passa a un registro corale in cui Aviha è una delle tante voci che abitano quel microcosmo che è l’orfanotrofio.
La maggior parte degli ospiti non sono sabra, nati in Israele come Aviha o la sua amica del cuore Ayala, ma vengono dall’Europa e sono sopravvissuti allo sterminio nazista; hanno sperimentato situazioni estreme, alcuni non ricordano la loro origine o i nomi dei familiari, molti sperano di trovare un parente che li accolga.
Fin dalle prime pagine emergono nel racconto due parole che, come un fil rouge, legano tutta la narrazione: “qui e là”.
Quel mondo “di là” che ci ha fatto conoscere Lizzie Doron nei suoi splendidi romanzi raccontando l’esperienza della madre sopravvissuta, è il luogo da cui quei giovani sono fuggiti e dove le famiglie sono morte per mano nazista. Il dolore indicibile che permea le loro menti, per certi aspetti incomprensibile ai sabra, si manifesta in maniera aspra quando si trovano a discutere se accettare o rifiutare gli indennizzi per i sopravvissuti provenienti dalla Germania: una questione che per anni ha animato la società israeliana.
Fra i bambini c’è chi trova impensabile ricevere un indennizzo per la vita dei genitori o dei fratelli perduti, altri invece guardano al futuro e immaginano quello che potrebbero avere con quel denaro perché alla fine nessuno gli “restituirà l’infanzia perduta”. Durante il giorno i ragazzi studiano, lavorano nei campi e nel frattempo si cementano amicizie, si condividono momenti dolorosi, ognuno cerca di trovare il proprio spazio, mentre sbocciano i primi afflati d’amore. Come Aviha che si innamora di Jurek, un ragazzo venuto da “là”, con un carattere spigoloso ma capace di tenerezza ogniqualvolta Aviha si scioglie la treccia che gli ricorda la sorella perduta.
Ci sono momenti di gioia quando il giardiniere Tuviah riceve dalla regina d’Olanda la più alta onorificenza per il coraggio dimostrato nella lotta contro l’occupazione nazista e per aver salvato degli ebrei. E momenti bui quando si insinua la follia nelle menti più fragili e allora di sera si odono le urla minacciose di due ragazzini inseparabili, in apparenza normali, che uno sulle spalle dell’altro corrono nel cortile della scuola sotto lo sguardo impaurito e sgomento dei compagni.
Il dolore indicibile per la perdita degli affetti, lo strazio di sapersi soli al mondo possono trovare vie di fuga inspiegabili e misteriose.
Nel romanzo i momenti di dolore sono però stemperati dalla voglia di vivere che agita l’animo dei ragazzi e dalle immagini di una natura rigogliosa che Almagor dipinge con vera maestria. Sulla collina “fiorita di una profusione di colori” con l’albero delle giuggiole che accoglie sotto le sue fronde le confidenze, i ricordi, gli amori degli orfani, sboccia un tappeto di fiori di ogni forma e colore: sono i giacinti, i tulipani, i narcisi che il giardiniere ha ricevuto in dono dalla Resistenza olandese e una piccola pianta di non ti scordar di me che Aviha porta sulla tomba del padre. Nonostante la madre malata non le abbia mai rivelato nulla dell’identità del genitore, morto prima della sua nascita, la giovane riesce a trovare il luogo dove è sepolto, pacificando la sua anima. Perché per Aviha la cosa più importante è “che ci sia una tomba da visitare”.
Si termina questo libro, dalla prosa scorrevole e avvincente, con un senso di gratitudine per l’autrice. “Sotto l’albero delle giuggiole” è un libro luminoso che offre l’immagine di una generazione che ha contribuito, in uno spirito di solidarietà e condivisione, a porre le basi dell’allora emergente Stato ebraico per costruire un luogo dove tutti gli ebrei potessero vivere senza essere più vittime ma protagonisti del proprio destino.
Giorgia Greco