Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/08/2023, a pag.1, con il titolo "Dall'odio di Bismarck ai lager del Karabakh, la Shoah armena che dura da 108 anni", il commento di Antonia Arslan.
Antonia Arslan
Come è accaduto per gli studi sulla Shoah, che nel corso degli anni si sono estesi in ogni direzione, dalla raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti, alla ricerca delle figure dei "giusti", all'analisi estesa e approfondita di documenti, situazioni, personaggi, così oggi si stanno aprendo nuovi scenari per lo studio e la comprensione del Metz Yeghèrn, il genocidio degli armeni, e per l'indagine sullo stretto collegamento esistente fra le due tragedie. In entrambi i casi le flebili eppure possenti voci delle vittime si sono ormai taciute. Dal 1945 sono passati quasi ottant'anni; dal 1915, centootto: e oggi, spetta agli storici assemblarle, interpretarle, metterle in relazione fra loro e con i contesti in cui quei terribili eventi sono accaduti. È il loro compito confrontare le memorie, i diari, le carte – spesso cariche di fortissime, preziose emozioni, che descrivono le vite dei singoli nel momento del loro incrociare gli eventi drammatici che li toccano - con una visione più ampia che li collochi nella giusta luce e provi a interpretarli. Nel campo degli studi sul genocidio armeno, fra le direzioni di ricerca che negli ultimi anni si sono rivelate particolarmente fruttuose, in primo luogo ci sono le indagini negli archivi turchi. Questi sono stati a più riprese – già fino dagli anni turbolenti del primo dopoguerra - affannosamente ripuliti dei documenti compromettenti: solo di pochi infatti si ha conoscenza, grazie ai resoconti, nei giornali turchi dell'epoca, dei grandi processi di Costantinopoli del 1918-19, voluti dal Sultano contro alcuni dei responsabili. Tuttavia, qualche esile traccia si trova, ma bisogna farla parlare: ed ecco il ruolo di quell'esiguo ma agguerrito plotone di giovani ricercatori turchi guidati da espertissimi storici come Taner Akçam, il cui libro Killing Orders. I telegrammi di Talaat Pasha e il Genocidio Armeno (tradotto in italiano nel 2020) ha dimostrato definitivamente l'autenticità degli ordini di sterminio inviati personalmente dal potente ministro degli interni. Ne esce già abbastanza evidente il ruolo svolto nella tragedia armena dai militari tedeschi, molto numerosi a tutti i livelli, dalla truppa agli alti comandi, come alleati e consiglieri dell'esercito turco: non furono soltanto spettatori, purtroppo si lasciarono spesso anche attivamente coinvolgere. Non tutti, certo, e non sempre volentieri, come ben dimostrano i casi delle preziose fotografie di Armin Wegner o del console di Aleppo Walter Rössler: comunque prevalse in loro, dai semplici soldati agli ufficiali, ai capi come il maresciallo barone Colmar von der Goltz, quell'insidiosa "opinione diffusa" di altezzoso disprezzo verso la minoranza armena dell'impero ottomano, che li paragonava agli ebrei, attribuendo loro le stesse caratteristiche fisiche e morali negative con le quali veniva stigmatizzato il popolo ebraico. D'altronde, l'ambasciatore tedesco presso la Sublime Porta, von Wangenheim, risolutamente antiarmeno, stroncava diligentemente - secondo gli ordini – ogni sussulto di umanità che provenisse dal personale diplomatico e consolare testimone dei massacri, ribadendo le direttive del suo governo. Ma l'opinione pubblica e la stampa della Germania imperiale già nell'epoca bismarckiana erano preparate al paragone fra Ebrei e Armeni: insomma, basterebbe forse citare la famosa, sinistra frase, «gli Armeni sono gli Ebrei dell'Oriente», per comprendere l'evidente sottinteso che, se il nuovo, modernizzante governo dei Giovani Turchi voleva eliminarli, avrà avuto le sue buone ragioni, e non spetta a noi discuterle. Creare l'impero guglielmino o ricompattare quello ottomano esigeva determinazione e coscienza di dominio: «per ottenere la frittata bisogna rompere le uova»... L'anti-armenismo (mi si perdoni il neologismo) si fondeva così con il serpeggiante anti-semitismo, e ne traeva giustificazione e forza. Questo filone di indagine è stato affrontato ed esaurientemente sviluppato da due studiosi negli ultimi anni: la filosofa americana Siobhan Nash-Marshall e lo storico tedesco Stefan Ihrig, in due libri che si completano e si integrano. Il primo, I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio armeno (Guerini, 2018) affronta il nodo dello stretto rapporto che si stabilisce nel tardo Ottocento fra elaborazioni teoriche sui temi della razza e della supremazia e l'idea di un riscatto nazionalistico, che un poco alla volta si carica di intolleranza e violenza, fino all'approdo a progetti di «soluzione finale». Come seguendo il filo di un'indagine poliziesca, attraverso la pubblicistica tedesca e i testi - poco conosciuti – degli ideologi dei Giovani Turchi (Ziya Gökalp, Yussuf Akçura, la famosa Halide Edib), l'autrice segue la crescita dell'influsso di pensatori e pubblicisti tedeschi sulla politica ottomana, dal teorico al concreto, fino all'alleanza nella guerra mondiale. E' in quei terribili anni di distruzione e di crollo di civiltà che si attuò quell'esperimento spietato e definitivo di eliminazione di un'intero popolo, in una barbarica e concretissima apocalisse di sangue innocente. Il libro di Ihrig (Giustificare il Genocidio. La Germania, gli Armeni e gli Ebrei da Bismarck a Hitler), uscito in questi giorni sempre per Guerini, dimostra con teutonica precisione – pagina dopo pagina, citazione dopo citazione - il serpeggiare e il progressivo diffondersi nella stampa e nella pubblicistica tedesca di un subdolo giustificazionismo (nonostante gli sforzi di alcuni scrittori e giornalisti che ben conoscevano la realtà della situazione in Anatolia, come il pastore Johannes Lepsius, le descrizioni e i racconti di molti testimoni), dapprima durante i massacri armeni del Sultano Rosso negli ultimi anni dell'Ottocento, e infine perfino di fronte allo sterminio di massa del genocidio, dal 1915 in poi. E questo avveniva fin dai tempi di Bismarck, mentre si definiva l'alleanza fra i due imperi, quello tedesco e quello ottomano. Proprio von der Goltz – che parlava perfettamente il turco - rivestì per molti anni il ruolo di ricostruttore dell'esercito turco, ed era venerato e rispettato al punto che gli venne conferito il titolo di "Pasha", mai concesso ai non-musulmani; e come istruttore dei giovani ufficiali fu lui il più importante mentore del gruppo che diede origine al partito dei Giovani Turchi. Ihrig segue la crescita – anno dopo anno - l'intrecciarsi e l'affermarsi delle due ossessioni e la loro sovrapposizione, fino alla maturazione del bubbone nazista, padroneggiando con intelligenza e precisione un'immensa mole di documenti; e dimostra senz'ombra di dubbio le responsabilità tedesche che lo storico Vahakn Dadrian, in un suo libro molto discusso, German responsabilities in the Armenian Genocide, aveva cercato di sostenere già nel 1996. E la sua ricerca si conclude con un appassionato ricordo del grande Raphael Lemkin, lo studente di legge che abbracciò la causa armena, dopo che il suo professore di diritto paragonò gli Armeni ai polli che un contadino proprietario ha il diritto di uccidere, se vuole. «Ma gli Armeni non sono polli!», cominciò a riflettere Lemkin: e fu lui che nel 1944, dopo Auschwitz, inventò la parola «genocidio».
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