Washington tenta un accordo con Riad
Analisi di Antonio Donno
A destra: Jake Sullivan, Mohammed Bin Salman
Gli Stati Uniti tentano di rientrare nel Medio Oriente ristabilendo i rapporti con l’Arabia Saudita. Tentò di farlo Trump nel maggio del 2017 con un viaggio che lo portò a incontrare Mohammed bin Salman a Riad. Gli incontri furono cordiali ma non ebbero alcun esito sul piano concreto della ripresa di fattive relazioni. È molto probabile che l’avanzata politica della Cina verso il Golfo Persico e il Mediterraneo Orientale abbia indotto il regime saudita ad attendere il momento giusto per prendere decisioni vantaggiose per se stesso. Così, qualche mese fa, grazie alla mediazione della Cina, Riad ha ristabilito le relazioni con l’Iran, al fine di ottenere da Teheran la certezza che il nucleare iraniano non produca, nel momento in cui il regime degli ayatollah avrà deciso, una crisi nucleare che, pur essendo rivolta alla distruzione di Israele, non comporti anche il coinvolgimento dell’Arabia Saudita. L’attendismo di Riad, dunque, aveva uno scopo ben preciso che ha indotto il regime saudita a rimandare la riapertura del dialogo con Washington e, allo stesso tempo, a rinunciare ad aderire agli Accordi di Abramo firmati da Israele, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan.
Riad ha rinunciato ad aprire colloqui con Israele, perché ciò non si accorderebbe con le relazioni irano-saudite instaurate di recente. Né tantomeno Pechino gradirebbe una mossa di questo genere, dopo che il suo impegno diplomatico ha portato agli accordi tra Riad e Teheran. Di conseguenza, l’ingresso dell’Arabia Saudita negli Accordi di Abramo, auspicato fino a poco tempo fa da Israele e dagli altri paesi arabi firmatari degli accordi, ora è impossibile a causa degli relazioni stabilite da Riad con Teheran e mediate da Pechino. Di fatto, questi accordi portano i due paesi a un controllo completo del Golfo Persico con conseguenti riflessi sul Mare Arabico e sulle sponde occidentali dell’India.
Per questi motivi, che si intrecciano su una sezione fondamentale del sistema politico internazionale, Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, si è recato in Arabia Saudita per discutere la possibile normalizzazione dei rapporti tra Riad e Gerusalemme. Troppo tardi, come spesso è accaduto per i precedenti interventi degli Stati Uniti nella regione mediorientale. Per quale motivo l’Arabia Saudita dovrebbe rompere gli accordi stipulati con l’Iran per entrare negli Accordi di Abramo e ristabilire le relazioni con Israele? Che cosa gli Stati Uniti dovrebbero assicurare a Riad perché rinunci agli accordi con Teheran? Secondo il progetto di bin Salman, Washington dovrebbe concedere all’Arabia Saudita una difesa anti-nucleare solida e stabile per difendersi da Teheran. Ciò significa, in poche parole, che gli accordi stabiliti dall’Arabia Saudita con l’Iran hanno un valore relativo e parziale, fino al momento in cui Washington non avrà assicurato a Riad una difesa certa contro il nucleare iraniano. Bin Salman, in sostanza, sta giocando su due tavoli, uno provvisorio, l’altro indirizzato alla stabile protezione da parte americana.
Se il secondo progetto sarà portato a compimento, l’Arabia Saudita potrà aderire agli Accordi di Abramo sotto la protezione di Israele, non rinunciando, però, all’ottenimento di importanti clausole da parte di Gerusalemme sulle questioni palestinesi. Dunque, il Medio Oriente si pone oggi come uno scacchiere di nuovi, possibili accordi, che non escludono, tuttavia, nuove contraddizioni e nuovi contrasti. È difficile prevedere quali saranno gli esiti del viaggio di Sullivan a Riad. Una cosa è certa: Washington non vede l’ora di tirarsi fuori dal Medio Oriente, ma il pericolo è che questa strategica regione divenga un campo di stabile interesse per Iran, Russia e Cina, a scapito della sicurezza di Israele e di quei paesi arabi che, sottoscrivendo gli Accordi di Abramo, hanno sperato che la regione mediorientale divenisse un’area di libero scambio e di tranquilla coesistenza.
Antonio Donno