La fine della comunità ebraica irachena / parte 2
Analisi di David Elber
Nel 1948, dopo la proclamazione dell’indipendenza di Israele e l’aggressione araba allo Stato neonato, la situazione degli ebrei iracheni si era fatta insostenibile. Il 19 luglio di quell’anno fu modificato il codice penale con la legge 51. Questa modifica comportò l’introduzione del reato di “sionismo” che diventava un crimine punibile con 7 anni di carcere. L’accusa, che poteva colpire un qualsiasi ebreo iracheno, poteva essere sostenuta da due “testimoni” musulmani. Per gli ebrei non c’era possibilità di ricorrere in appello. Nel giro di pochissimi mesi centinaia di ebrei furono, conseguentemente, arrestati, torturati e privati completamente delle loro proprietà. In alcuni casi si arrivò alla pubblica impiccagione degli accusati, che erano generalmente i più facoltosi, e i loro beni sequestrati. Nel giro di pochi mesi oltre 1.500 ebrei furono cacciati dai loro incarichi statali e furono costretti a vivere in miseria. Stessa sorte capitò ai dipendenti ebrei del porto di Bassora e ai dipendenti delle ferrovie. E’ da sottolineare che questi licenziamenti in massa causarono forti ripercussioni economiche in tutto il paese. Ma più l’economia peggiorava più si dava colpa a “complottisti ebrei” che agivano nell’interesse di Israele. Iniziò, poi, il boicottaggio delle attività commerciali, dei professionisti e dei negozianti ebrei. Il valore delle proprietà ebraiche crollò dell’80%. Agli ebrei iracheni non restava alternativa alla fuga dal paese.
Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949 si formarono intere carovane di persone in fuga verso l’Iran, che era l’unico paese che si dimostrava disposto – dietro a cospicue “mance” – ad accettare gli ebrei in fuga per raggiungere altri paesi. La corruzione dai piccoli funzionari di frontiere raggiunse i più alti livelli dello Stato. Più gente scappava più la corruzione diventava onerosa. Fu un autentico business sulla pelle di gente disperata in fuga. Per tutto il 1949 furono circa 1.000 ebrei al mese che riuscirono a scappare dal paese, tra mille difficoltà e lasciando tutto ciò che avevano, ma per le autorità ciò non era sufficiente.
Il 3 marzo 1950, fu approvato una modifica alla Legge 1. Questa modifica, il “Denaturalization act”, autorizzava lo Stato a revocare la cittadinanza a tutti gli ebrei che volevano lasciare il paese, ricalcando in tutto e per tutto ciò che era avvenuto in Germania negli anni trenta. Con la perdita di cittadinanza si aveva il contestuale “congelamento” di ogni proprietà. Da questo momento ogni cittadino ebreo che si registrava per emigrare perdeva automaticamente tutti i beni. Le autorità irachene pensarono che solo gli ebrei già ridotti in miseria avrebbero deciso di emigrare, invece praticamente l’intera comunità decise di chiedere il permesso all’espatrio (la validità era per un anno) per il timore di rimanere prigionieri in uno Stato che li stava pesantemente discriminando. Nel giro di poche settimane decine e decine di migliaia di rifugiati si ritrovarono in campi profughi allestiti alla bene e meglio in Iran. Pensare di immigrare via terra era impossibile visto il numero altissimo di profughi. A questo punto intervenne il Mossad per organizzare un ponte aereo per condurre questi disperati in Israele. Era una corsa contro il tempo prima che il governo iracheno cambiasse idea e non ne permettesse più l’uscita. Si decise così di ripetere, in grande, l’operazione che permise il salvataggio della comunità ebraica yemenita due anni prima. Per questo scopo fu contatta, nuovamente, la compagnia aerea Alaska Airlines – a nessun aereo israeliano era permesso il sorvolo e l’atterraggio nei paesi arabi e in Iran – e fu creata una finta compagnia aerea ad hoc per l’operazione di salvataggio: la Near East Air Transport. In un anno furono trasportate in Israele poco più di 40.000 persone. Gli aerei dovevano fare scalo a Nicosia (sull’isola di Cipro) per tenere nascosta la destinazione finale: Tel Aviv. Per poter velocizzare le operazioni e poter raccogliere i profughi direttamente in Iraq, fu stretta una collaborazione con un partner locale, la Iraq Tours, il cui proprietario era niente di meno che il primo ministro iracheno in persona: Tawfig as-Suwaydi, colui che aveva proposto il “Denaturalization act” e ora si apprestava ad arricchirsi sulle disgrazie da lui prodotte. L’operazione di aviotrasporto fu chiamata “operazione Ezra e Nenemiah”. Gli ebrei in fuga erano taglieggiati e umiliati sia durante il trasporto verso l’aeroporto sia all’interno dello scalo. Non c’era guardia o soldato che non cercasse di trarre profitto dai disperati in fuga. Le operazioni di imbarco erano molto spesso rallentate appositamente dalle guardie irachene che non rilasciavano i timbri necessari se non dietro lauti compensi. La situazione era giunta ad un punto drammatico: decine e decine di migliaia di persone, che nel frattempo erano stati privati della cittadinanza e dei loro beni, dormivano in aeroporto e nelle strade circostanti in attesa di un imbarco. La situazione era così critica che le autorità minacciarono di rinchiudere i senza tetto in campi di concentramento se non fossero partiti velocemente. C’era bisogno di un numero maggiore di aerei. Non mancarono i pretendenti a questo lucrativo trasporto di disperati. Il Mossad dovette pagare onerosi contratti di affitto a due compagnie aeree inglesi: la BOAC e la BEA. Mentre il contratto di manutenzione e “servizi” a terra fu dovuto essere affidato alla compagnia irachena Iraq Airways con tanto di tangente per ogni volo. I voli continuarono senza sosta fino al marzo 1951. Israele si trovò, in poco tempo, in una situazione di grave emergenza. Gli arrivi incessanti erano talmente numerosi che lo Stato non disponeva più ne di abitazioni ne di tende sufficienti ad accogliere tutti. Bisogna ricordare che dal 1948 anno della sua fondazione al 1951, con l’arrivo degli ebrei dai paesi arabi (Yemen, Egitto, Tunisia, Marocco e Iraq) la popolazione dello Stato era più che raddoppiata. Mai nella storia moderna di uno Stato era successo qualcosa di paragonabile.
Nel frattempo, nel marzo del 1951, il governo iracheno aveva approvato la Legge 5 con la quale si congelavano a “tempo indeterminato” tutti i beni degli ebrei in fuga. Questo escamotage permise all’Iraq di appropriarsi di tutti i loro beni senza operare una confisca vera e propria, così da non incorrere in infrazioni del diritto internazionale. In questo modo nessuno avrebbe potuto mai reclamare i propri beni davanti ad un giudice in altri Stati. Quando fu approvata questa legge, per essere sicuri che nessun ebreo, ancora in attesa di espatrio, potesse prelevare neanche un pò del proprio denaro, il governo ordinò la chiusura di tutte le banche per tre giorni. Oltre a ciò il governo iracheno dichiarò che dopo il 31 maggio del 1951, non sarebbero stati rilasciati più visti di emigrazione. Israele si trovò nella difficilissima situazione di assorbire tutti gli ebrei iracheni nel più breve tempo possibile per paura che migliaia di persone rimanessero prigioniere in uno Stato che non le riconosceva più come cittadini. Furono incrementati i voli – ormai si volava giorno e notte – fino a trasportare più di 15.000 persone al mese. Entro la fine del 1951 praticamente tutta la comunità ebraica irachena si era stabilita in Israele con i soli abiti che aveva indosso.