L’eroica resistenza delle donne ebree nel Ghetto di Varsavia
Analisi di Antonio Donno
Il ruolo delle donne ebree, giovani e in alcuni casi adolescenti, nella vicenda terribile del ghetto di Varsavia oggi è descritto in un libro fondamentale, che – sulla base di diari, testimonianze, memorie, interviste, documenti d’archivio e saggi – riporta alla luce una realtà finora sconosciuta. Il libro della canadese Judy Batalion, Figlie della resistenza. La storia dimenticata delle combattenti nei ghetti nazisti (Mondadori, 2022, pp. 561), ci rivela l’azione eroica di Renia Kukielka, Frumka Plotnicka, Tosia Altman, Chajka Klinger, Ruzka Korczak e Vitka Kempner, che, nel ghetto di Varsavia, dal 1940 al 1945, vissero esperienze disumane nel difendere il proprio popolo, destinato alla soppressione sistematica. Con una prosa asciutta, ma nello stesso tempo partecipe dell’eroismo di queste giovani donne ebree, Batalion ci restituisce una storia memorabile finora nascosta, ma finalmente oggi alla luce. Queste ragazze del ghetto facevano parte di gruppi giovanili che si rifacevano, in gran parte, al sionismo socialista, alcuni più intellettuali o laici, altri dediti alla beneficenza e agli aiuti umanitari, ma soprattutto il Dror (in ebraico, “libertà”), scrive Batalion, “[…] si concentrava sull’azione sociale e, unico nel suo genere, attirava membri dalla classe operaia che parlava yiddish” (p. 37), soltanto yiddish e, perciò, facilmente individuabili da parte degli aguzzini nazisti.
Quali erano le principali attività delle giovani ebree del ghetto di Varsavia? Si trattava, in buona misura, di partigiane uscite dai movimenti giovanili ebraici e che lavoravano nei quartieri ebraici, alcune erano vere e proprie combattenti, redattrici di giornali clandestini, e soprattutto staffette, le cui operazioni rivestivano fondamentale importanza nel portare notizie ai gruppi di ebrei sparsi in varie parti del ghetto affinché si preparassero per tempo a resistere all’attacco dei nazisti. Per far questo, alcune si spacciavano per polacche, anche se il loro aspetto non ariano talvolta le tradivano, portando con sé documenti, denaro, informazioni, armi e, in qualche caso, persone. Passando a descrivere, capitolo per capitolo, le imprese delle singole ebree citate, Batalion ci offre un quadro straordinario del loro eroismo: “Stavano perfezionando un ruolo che ben presto sarebbe diventato uno dei più importanti, se non il più importante della resistenza” (p. 84).
Ricco di un apparato fotografico pregevole, Batalion ci conduce verso la soluzione finale del ghetto di Varsavia (19 aprile-16 maggio 1943), seguendo le iniziative delle giovani ebree protagoniste del libro. Più si avvicinava quella data fatidica, tuttavia, meno efficace si faceva l’azione delle kasharyot (in ebraico,”corrieri”), che, nella maggior parte dei casi, finivano per riferire soltanto i massacri sempre più intensi all’interno del ghetto. Quando i tedeschi entrarono nel ghetto per eliminare tutti gli ebrei, la resistenza fu accanita. Batalion dedica pagine di una grande intensità emotiva alla resistenza ebraica: uomini e donne si impegnarono fino alla morte per impedire ai nazisti di avanzare nel ghetto: “Ragazze ebree – ragazze ebree! – che facevano fuoco con le pistole e lanciavano bottiglie esplosive. Bambini ebrei, maschi e femmine, tendevano imboscate ai tedeschi con pietre e spranghe di ferro” (p. 214).
Dopo la definitiva distruzione del ghetto, gli stessi nazisti riferirono in un documento che la battaglia era stata durissima per loro e che “[…] ragazze ebree armate e diaboliche avevano combattuto all’ultimo sangue” (p. 229). Ma le giovani ebree pagarono un prezzo altissimo nella resistenza. Le umiliazioni di ogni genere e gli stupri erano all’ordine del giorno, perpetrate non solo dai nazisti, ma dagli stessi polacchi, il cui antisemitismo era secolare: “La Polonia postbellica – scrive Batalion – era un ‘selvaggio West’ dove l’antisemitismo era diffuso” (p. 428). Ma nel dopoguerra una cortina di silenzio cadde su questi orrori. Renia riuscì a raggiungere l’Yishuv ebraico in Palestina e lì poté finalmente raccontare gli orrori del ghetto di Varsavia; ma Renia, come molte donne ebree scampate agli orrori del nazismo, soffriva “[…] dell’opprimente senso di colpa del sopravvissuto” (p. 421). Un senso di colpa che le accompagnò sino alla fine della loro vita, ma in Israele.