Errori e omissioni sui rapporti tra Israele e Stati Uniti
Analisi di Antonio Donno
Il numero di aprile della rivista mensile Domino, diretta da Dario Fabbri, è quasi interamente dedicato a Israele. In esso è presente un articolo, “Stati Uniti e Israele. C’eravamo tanto amati”, di Jacob Shapiro, che contiene vari errori interpretativi e di omissione. In primo luogo, quando Shapiro parla delle relazioni israelo-americane nel secondo dopoguerra, sostiene che “l’America decise di servirsi della relazione con Israele in chiave anti-siriana e anti-egiziana” (p. 79), architrave della presenza americana nel Medio Oriente. Si tratta di un’affermazione molto riduttiva, perché l’impegno di Washington nella regione aveva una funzione preminentemente anti-sovietica, essendo Siria ed Egitto due avamposti di Mosca nel Medio Oriente. La relazione con Israele aveva un significato che andava ben al di là di quanto afferma Shapiro, perché la democrazia israeliana – unica nella regione, allora come oggi – rappresentava per gli Stati Uniti un riferimento di libertà di estrema importanza, da difendere ad ogni costo contro la minaccia delle dittature arabe legate al totalitarismo sovietico.
La politica americana verso la regione mediorientale, dopo il crollo del comunismo, si è progressivamente allontanata da quelle problematiche e indirizzata verso l’Indopacifico in funzione anti-cinese. Shapiro interpreta questo cambio di direzione politica da parte di Washington in quanto “[…] l’interesse nazionale americano avrebbe avuto la precedenza rispetto al sostegno incondizionato nei confronti di Israele” (p. 80), e questo a partire dagli accordi americani con l’Iran del 2015, fortemente voluti da Obama. Obama riteneva che tali accordi avrebbero portato a una stabilizzazione del Medio Oriente, ritenendo che il controllo internazionale del nucleare iraniano avrebbe garantito che Teheran non giungesse pericolosamente all’acquisizione definitiva dell’arma nucleare contro Israele. Di conseguenza, scrive Shapiro, “la ratio dell’intesa verteva attorno alla costruzione di un equilibrio di potenza regionale che non richiedesse l’intervento diretto americano” (ibid.). Shapiro non approfondisce, però, le conseguenze nel tempo di quegli accordi, il che costituisce una lacuna importante nella sua analisi.
Quegli accordi, infatti, permisero all’Iran di continuare imperturbato nello sviluppo del nucleare, in quanto il regime non concesse ai controllori internazionali di penetrare nel nucleo centrale, quello decisivo, dei laboratori, adducendo problemi di sicurezza nazionale. Poi, Trump annullò gli accordi, fino alla situazione attuale, in cui Teheran è giunto quasi alla conclusione del progetto nucleare. In sostanza, da Obama sino ad oggi, l’Iran è andato avanti quasi senza intoppi nel suo programma. Durante questo lungo periodo gli Stati Uniti si sono allontanati progressivamente dalla regione mediorientale, anche a causa di dissapori politici con Israele. Si tratta degli annosi problemi israelo-palestinesi, che Shapiro non prende in considerazione, pur trattandosi della ragione principale della presa di distanza di Washington da Gerusalemme. Il nodo del distacco è sempre lo stesso: Israele rifiuta di prendere in esame il progetto della creazione di due Stati, uno ebraico, l’altro palestinese, in quanto Gerusalemme ritiene che la creazione di uno Stato palestinese ai confini di Israele costituirebbe una minaccia di stampo terroristico nei confronti di Israele.
Così, il fallimento degli accordi con Teheran e il rifiuto di Israele di accogliere la proposta americana, e non solo americana, dei due Stati hanno contribuito alla decisione americana di abbandonare il Medio Oriente e concentrarsi sull’Indopacifico: “[…] Gli apparati statunitensi sono talmente ossessionati dal contenimento di Pechino nell’Indopacifico da trascurare le mosse in Medio Oriente” (p. 81). Insomma, una grande potenza come quella americana, che ha garantito la democrazia per tutto il secondo dopoguerra, compie un errore politico molto grave nell’abbandonare nelle mani della Russia e della Cina, oltre che dell’Iran, una regione strategicamente fondamentale dello scacchiere internazionale. Proprio per questo motivo, è errata la conclusione di Shapiro: “Lo Stato ebraico, però, non è più debole come un tempo e non necessita di un patron per ottemperare ai suoi bisogni securitari. Israele guarda all’equilibrio di potenza in chiave squisitamente regionale” (p. 83). Ma, come si è detto, l’equilibrio regionale è oggi compromesso dall’ingresso di Russia e Cina e dalla minaccia esistenziale iraniana nei confronti di Israele. Washington, nel distaccarsi dal Medio Oriente, sta commettendo un errore che potrebbe portare a esiti imprevedibili.