L'attacco di Djerba fa luce sulla negazione dell'antisemitismo arabo
Analisi di Ben Cohen
(traduzione di Yehudit Weisz)
La sinagoga El Ghriba
Ci sono molti dettagli importanti sull'attentato con armi da fuoco del 9 maggio scorso, alla storica sinagoga El Ghriba sull'isola di Djerba in Tunisia, durante il quale sono stati assassinati due fedeli ebrei e tre guardie di sicurezza, e su cui si attende ancora che venga fatta luce.
Sono trascorse quasi due settimane, ma non conosciamo ancora il nome né il grado dell'aggressore tranne il fatto che era un ufficiale di marina tunisino in servizio a Djerba, e le autorità tunisine si sono finora rifiutate di identificare l'atrocità come un atto di terrorismo. Lo hanno descritto come “criminalità”, una parola così imprecisa in questo caso che non significa quasi nulla. Non si sa se siano state coinvolte altre persone nella pianificazione o nell'esecuzione dell'attacco, ad eccezione di un vago reportage in onda su una stazione radio locale in cui si annunciava che erano state arrestate quattro persone, ma non venivano forniti né i loro nomi né altri dettagli. E non sappiamo ancora quali ulteriori misure di sicurezza i tunisini metteranno in atto per proteggere la minuscola comunità ebraica di 1.500 anime.
Quello che sappiamo inequivocabilmente è che il governo tunisino e, soprattutto Kais Saeid, il Presidente di questo Stato nordafricano, non crede che ci sia un problema ed è profondamente risentito con chiunque suggerisca il contrario.
Subito dopo l'attacco, già di per sé un amaro ricordo della strage di Al-Qaeda del 2002 alla sinagoga di El Ghriba che aveva spento la vita di 19 persone e che ne aveva ferite più di 30, Saeid si era preoccupato soprattutto di respingere la tesi secondo cui in Tunisia esiste l'antisemitismo invece di rassicurare la comunità ebraica. La sua argomentazione era incentrata su tre punti. In primo luogo, che coloro “che parlano di antisemitismo quando siamo nel 21° secolo,” come ha affermato venerdì scorso dopo un incontro con il suo Consiglio dei Ministri, sono ridicolmente esagerati. In secondo luogo, che le preoccupazioni sollevate sull'antisemitismo sono uno squallido tentativo di distogliere l'attenzione dal vero problema: il protrarsi del dramma del popolo palestinese. In terzo luogo, che i tunisini possono essere orgogliosi dei loro successi nella protezione della comunità ebraica durante la breve occupazione nazista, tra novembre del 1942 e maggio del 1943, in netto contrasto con la vergogna che gli israeliani e i loro sostenitori dovrebbero provare nell’esaminare i loro precedenti nei confronti dei palestinesi.
Questi sono tutti cliché comuni nei contesti occidentali, ma forse l'osservazione più importante sulla loro manifestazione in un Paese arabo è che in tutte le parti della regione, essi si sommano al rifiuto storico di riconoscere che esiste una forma specifica di fanatismo e di discriminazione contro gli ebrei, che si chiama antisemitismo.
Tra i cliché preferiti che si incontrano quando si solleva l'argomento dell'antisemitismo arabo o musulmano con le persone della regione, c'è questa loro frase: “Noi siamo semiti, quindi non possiamo essere antisemiti”, un punto di vista ottuso di chi non riesce a cogliere che il termine era emerso in Germania fin dalla fine del XIX secolo nel tentativo di conferire al loro odio, in quanto odiatori professionisti di ebrei, una brillantezza scientifica, presentandolo come un'evoluzione necessaria nella lunga tradizione dell'antisemitismo religioso cristiano.
Meno di frequente, ti potrebbe venir detto che l'antisemitismo è una considerazione irrilevante quando ci si ricorda che i palestinesi sono - come mi disse memorabilmente un diplomatico palestinese molti anni fa – “le vittime delle vittime.”
Oppure che l'Islam è una religione di tolleranza e che gli ebrei, come i cristiani, sono un “popolo del libro” i cui diritti fondamentali sono quindi garantiti.
Le dichiarazioni di Saied all'indomani della sparatoria dimostrano che questo discorso, che fonde l'ideologia crudamente antisemita con la negazione dell'antisemitismo, è intenzionalmente promosso da chi è al potere.
Ci si potrebbe legittimamente chiedere perché la Tunisia – la cui capitale, Tunisi, si trova a 2.000 miglia da Gerusalemme – eleva la questione palestinese a tali dimensioni esistenziali, ma poi si può porre la stessa domanda a quasi tutti gli Stati membri della Lega Araba.
Storicamente, i leader arabi avrebbero coinvolto i palestinesi per una ragione essenziale: loro erano un'utile distrazione, un comodo strumento con cui far convergere contro lo Stato di Israele la rabbia e il risentimento che i cittadini arabi provavano nei confronti dei propri governi. Ma quando quella rabbia si è manifestata per le strade, sono state le comunità ebraiche indifese e non le forze di difesa israeliane ad affrontare la violenza e le rivolte. Tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta, il fallimento arabo collettivo di strangolare Israele alla nascita durante la sua Guerra d'Indipendenza, trovò compensazione attraverso la persecuzione e poi l'espulsione da tutto il Medio Oriente di oltre 800.000 ebrei, dal Marocco all'Iraq. Alla luce di simili precedenti, non ci dobbiamo certo stupire che un attacco a una sinagoga in cui hanno perso la vita ebrei e non ebrei venga interpretato attraverso questi filtri. Negare che l'attacco a El Ghriba sia stato motivato dall'antisemitismo è tanto assurdo quanto negare che il massacro dell'ottobre del 2018 alla Sinagoga dell'Albero della Vita a Pittsburgh sia di natura antisemita.
Tuttavia, quando vengono espresse da un autocrate come Saied, che ha passato gran parte degli ultimi tre anni a ribaltare le conquiste democratiche ottenute in Tunisia durante la “primavera araba”, tali argomentazioni diventano indiscutibili. La settimana scorsa, Saied ha fatto visita al sobborgo tunisino di Ariana, dove si trovava la casa di suo nonno, che, secondo lui, aveva dato rifugio agli ebrei durante l'occupazione nazista (un modo abile per ribadire il mito che fossero stati comuni tunisini a salvare gli ebrei dalla Shoah quando la realtà è che fu la conquista del Paese da parte delle forze alleate a fare la differenza decisiva). “La gente del posto li ha protetti dall'esercito nazista, e poi dicono che siamo antisemiti”, si è lamentato. “I nostri fratelli palestinesi vengono uccisi ogni giorno… ma nessuno dice niente al riguardo”. Per quanto sia triste dirlo, la prossima volta che ci sarà un attacco contro un bersaglio ebraico in un Paese arabo - e probabilmente ci sarà - verrà rigurgitato lo stesso discorso.
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate