Il Consiglio per i Diritti Umani e il suo doppio standard
Analisi di David Elber
Fin dalla sua creazione il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, che è l’Agenzia preposta per il controllo e la salvaguardia dei diritti umani nel mondo, si è contraddistinto per un palese e discriminatorio doppio standard verso lo Stato di Israele.
Si deve ricordare qui brevemente che il Consiglio per i Diritti Umani venne creato dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2006 con la Risoluzione 60/251 del 15 marzo. Questa decisione fu presa in quanto la precedente Agenzia ONU, la Commissione per i Diritti Umani, creata nel 1946 si era dimostrata così inefficiente e politicizzata che moltissimi paesi erano giunti a reputarla più un danno che un vantaggio. Nel 2007, dopo il primo passo compiuto dell’Assemblea Generale, i primi Stati che furono incaricati alla stesura del suo Statuto (sono 47 gli Stati che a turno vengono eletti nel Consiglio) approvarono la Risoluzione 5/1 del 18 giugno, con la quale si formulava la struttura e gli obiettivi della riformata Agenzia ONU per i diritti umani. Tuttavia, fin dalla creazione del suo Statuto, si capì subito che l’inefficienza e soprattutto la politicizzazione non solo non furono eliminate dal nuovo organismo ma peggiorarono. Come coronamento si aggiunse un ulteriore elemento: l’ossessione verso Israele.
Questa ossessione motivata politicamente si è manifestata in tre principali atti politico-programmatici ben distinti e inequivocabili: l’Agenda 7, la pubblicazione di una black list di aziende e banche relazionate a Israele e la creazione di una Commissione “perpetua” incaricata di riportare tutti i presunti crimini dei diritti umani effettuati da Israele. E’ superfluo dire che nessun altro Stato al mondo ha ricevuto o riceve un trattamento minimamente paragonabile. Esamineremo più nel dettaglio i tre atti del Consiglio.
Onu: la testa sotto la sabbia
Agenda 7L’Agenda 7 è il primo dei tre elementi su cui si incardina la discriminazione contro Israele propugnata dal Consiglio. Questa Agenda è una delle dieci (vedi elenco sottostante) con le quali sono stati create le aree di intervento del Consiglio per i Diritti Umani. Ciò significa che fin dalla sua creazione il Consiglio conteneva in sé una Agenda completamente ed esclusivamente dedicata a Israele mentre tutte le altre nove Agende sono di carattere generale e si possono applicare di volta in volta in casi specifici individuati dai suoi rappresentati.
In particolare l’Agenda 4 si occupa di tutti i casi di presunte violazioni che si verificano in tutti gli altri paesi del mondo. In pratica, se il Consiglio sospetta che in un qualsiasi paese del mondo si è verificato o si sta verificando un caso di violazione dei diritti umani, esso agisce in base all’Agenda 4. Invece, se il Consiglio vuole indagare su presunte violazioni avvenute in Israele o nei territori amministrati dalla Autorità Palestinese (ma solo ed esclusivamente se è Israele a essere imputato di commettere i presunti crimini) si muove sotto l’egida dell’Agenda 7.
In base a questi elementi si possono formulare diverse considerazioni. La prima, e la più importante è che fin dalla sua creazione, il Consiglio per i Diritti Umani considera Israele ontologicamente uno Stato “canaglia” altrimenti non sarebbe stato necessario creare una Agenda ad hoc solo per il suo caso. E’ utile ricordare che quando il primo Consiglio venne formato nel 2007 e approvò la creazione delle Agende, solo il Canada vi si oppose mentre tutti gli altri Stati le approvarono. Per la medesima ragione si può affermare che al mondo non esistono altri Stati “canaglia” non essendovi nessun altro caso di uno Stato per cui è stata istituita una agenda permanente che si riunisce tre volte all’anno allo scopo di discutere presunte violazioni.
Appare del tutto evidente che ci troviamo al cospetto di un formidabile strumento di delegittimazione dello Stato ebraico proveniente dalla più importante organizzazione mondiale riservata ai “diritti umani”. Fino ad oggi, il Consiglio ha formulato ben 99 risoluzioni di condanna nei confronti di Israele per abusi dei diritti umani, un insieme più numeroso di tutte le risoluzioni formulate nei confronti degli altri paesi del mondo messi assieme.
Un ulteriore considerazione da fare è relativa alla dicitura utilizzata per l’Agenda 7: “la situazione dei diritti umani in Palestina e in altri territori arabi occupati”. Siccome il Consiglio per i Diritti Umani promuove e finanzia le indagini sulle violazioni dei diritti umani in Israele (relativamente alla sola popolazione araba) oltre che nei territori amministrati dai palestinesi (senza però investigare sull’Amministrazione palestinese né in Giudea e Samaria né a Gaza) si desume che la “Palestina” abbia sostituito lo Stato ebraico visto che uno Stato denominato “Palestina” non esiste e non è mai esistito a causa dell’invasione araba del 1948. Anche questo fatto dovrebbe far riflettere su come il diritto internazionale in generale e i diritti umani in particolare siano manipolati e deformati al solo scopo politico. In parole povere, la nuova Agenzia ONU per i diritti umani è ben peggiore di quella che ha sostituito nel 2006. Non è un caso, ad esempio, che Israele è uno dei pochissimi paesi al mondo che da quando è stato istituito il Consiglio non è mai stato eletto per farne parte; così come accade per il Consiglio di Sicurezza, benché Israele sia uno dei primi paesi che sono entrati nell’ONU: Israele è il cinquatanovesimo Stato membro dell’ONU (51 sono gli Stati fondatori) sugli attuali 193.
Black listLa black list di aziende e banche operanti in Giudea e Samaria è il secondo grave atto discriminatorio creato dal Consiglio per i Diritti Umani per delegittimare Israele. La black list, voluta dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU nel 2016 e resa pubblica nel 2020, è anch’esso un unicum nel panorama mondiale. Infatti non esistono altre liste di “proscrizione” istituite da nessuna Agenzia ONU per nessun caso di guerra, occupazione o contenzioso al mondo passato o presente. Si tratta di una “pratica” tagliata su misura per Israele.
Esaminando più da vicino il tono generale utilizzato nella sua formulazione, si scopre che più che essere giuridico è di natura “mafiosa”. Nel documento non c’è nessun implicito riferimento a violazioni del diritto – non essendocene le basi – ma si fanno velate allusioni in merito agli eventuali procedimenti legali in cui potrebbero incorrere aziende e banche impegnate in attività economiche nei “territori occupati” se venissero evidenziate violazioni del diritto internazionale. Come sempre, in questi casi, non vi è alcun riferimento esplicito a nessuna norma del diritto internazionale che sarebbe, eventualmente, violato. Il vero intento è palese: spaventare le aziende per indurle a cessare ogni tipo di attività economica in Giudea e Samaria. Inoltre, è doveroso sottolineare che nessuna norma del diritto internazionale prevede l’illegalità di attività economiche, commerciali o industriali in territori contesi o occupati (con l’eccezione dello sfruttamento coatto della popolazione o l’esproprio di beni privati come ad esempio nel caso di Cipro nord) da parte della potenza occupante. Infatti, nessuna obiezione, ad esempio, è mai stata fatta alla Turchia per l’occupazione di Cipro Nord o al Marocco per l’occupazione del Sahara Occidentale. Questo principio inesistente lo si vuole applicare unicamente a Israele senza che se ne conoscano le basi giuridiche.
Va altresì evidenziato che la definizione “territori palestinesi occupati” utilizzata dal Consiglio per i Diritti Umani non ha nessuna base legale nel diritto internazionale, in quanto Israele non ha mai occupato nessun territorio palestinese ne tanto meno si può definire la situazione di Giudea e Samaria come quella di territori in “stato di belligeranza” visto che l’attuale situazione è disciplinata nei minimi dettagli – dal 1995 – dagli accordi sottoscritti tra Israele e l’Autorità Palestinese.
E’ del tutto evidente che la lista è stata fatta esclusivamente per recare danno d’immagine (ed economico) alle aziende additate come “violatrici” dei diritti umani e facilitarne così il boicottaggio.
La black list è composta da 112 aziende e banche, delle quali 94 sono israeliane e tutte di proprietà di ebrei israeliani, mentre esistono almeno altre 11 aziende di proprietà di arabo-israeliani che sono presenti nei territori ma non sono state incluse nella lista. Perché questa differenziazione se Israele nel suo complesso è accusato di ledere i diritti umani dei palestinesi? E’ chiaro che il criterio utilizzato dal Consiglio per i Diritti Umani, per redigere la lista, è esclusivamente di carattere etnico e religioso quindi è illegale oltre che immorale.
Una società israeliana (la Rami Levy) ha fatto causa contro la black list del Consiglio in forza della legge israeliana – Defamation Law – che proibisce, in base alle norme internazionali, le discriminazioni su base etnica o religiosa delle attività economiche.
La Commissione “perpetua”
Il terzo grave atto discriminatorio nei confronti di Israele compiuto dal Consiglio è stata la decisione di creare una commissione perpetua atta a indagare i presunti abusi dei diritti umani compiuti dallo Stato ebraico. Il fatto che questa commissione sia “perpetua” non ne è cioè prevista la fine, significa che il Consiglio per i Diritti Umani reputa che Israele commetterà costantemente delle violazioni. In pratica, lo Stato di Israele è aprioristicamente reputato come ontologicamente criminale. Con la Commissione “perpetua” si è raggiunto il grado più alto della delegittimazione di Israele ma, allo stesso tempo, il punto più basso di credibilità e di moralità dell’istituzione ginevrina.
La commissione nasce il 27 maggio 2021 all’indomani dell’ultimo conflitto tra Israele e Gaza, iniziato dall’aggressione missilistica palestinese (sono stati lanciati oltre 4.000 razzi verso le città israeliane in tre settimane) che portò all’inevitabile risposta dello Stato ebraico.
Nel mandato della commissione sono del tutto assenti i riferimenti all’aggressione di Hamas, al continuo lancio di razzi, alle morti di civili israeliani e al palese utilizzo, da parte di Hamas dei civili come scudi umani. Nel mandato della commissione si parla unicamente delle indagini da svolgere per accertare i presunti crimini commessi da Israele sia nei confronti della popolazione araba della Striscia di Gaza che di quella che abita in Israele, la cui responsabilità in omicidi, saccheggi e distruzioni varie in città a popolazione mista è del tutto assente.
La commissione perpetua è stata istituita con 24 voti favorevoli, 9 contrari (tra i quali l’Austria, la Bulgaria, la Rep. Ceca, la Germania e la Gran Bretagna) e 14 astensioni (tra cui l’Italia). I commissari, capeggiati dalla promotrice del BDS Navi Pillay, non hanno limite di tempo e di risorse economiche per portare avanti le indagini.
Il 23 dicembre 2021, Israele ha richiesto la votazione dell’Assemblea Generale per bloccare la commissione (tramite la bocciatura del suo finanziamento che è l’unica competenza vincolante dell’Assemblea) ma la proposta israeliana è stata bocciata da 125 paesi contro solo 8 favorevoli e 34 astenuti (tra i quali l’Italia).
La commissione ha deciso di sottoporre, al voto dell’Assemblea Generale (il 20 ottobre 2022), una richiesta per avere un parere consultivo da parte della Corte Internazionale di Giustizia in merito “all’illegalità dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi”. Dopo aver avuto il nulla osta da parte della III Commissione dell’Assemblea Generale dell’ONU, la richiesta formulata dalla commissione “perpetua” è stata approvata definitivamente dall’Assemblea Generale dell’ONU con schiacciante maggioranza il 30 dicembre 2022 (l’Italia ha votato contro). Ora la parola passerà alla Corte Internazionale di Giustizia e il suo parere sembra già scritto.