La stampa estera non ha il diritto di sapere
Come i palestinesi manipolano la stampa estera
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Data: 28/04/2003
Pagina: 1
Autore: Federico Steinhaus
Titolo: Come si manipola la stampa estera
Fin dal settembre 2000, quando scoppiò l'Intifada ancora in corso, i dirigenti palestinesi hanno utilizzato con molta abilità la stampa mondiale per mobilitare l'opinione pubblica in favore del "Davide palestinese" che combatteva contro il "Golia israeliano". "La televisione ama le emozioni e non si cura molto dei fatti. I palestinesi non si preoccupano di perdere molte vite umane, e gli israeliani non possono fare nulla per opporsi a questa realtà".
I corrispondenti stranieri, ed ancor più i palestinesi che lavorano per le agenzie di stampa estera che hanno i loro uffici a Gerusalemme, operano all' interno di ferree regole non scritte. Essi devono evitare di raccontare storie in cui vi siano abusi nei diritti umani, corruzione ad alti livelli del potere palestinese ed oscuri maneggi finanziari, oltre che violenze fra gruppi palestinesi che possano in qualche modo creare imbarazzo ad Arafat ed alla dirigenza palestinese.
Da un rapporto del Comitato Indipendente per la Protezione dei Giornalisti datato 2001 risulta che nei sette anni di governo l' Autorità Palestinese, Arafat ed il suo apparato di sicurezza hanno messo a tacere ogni critica nella stampa mediante arresti arbitrari, minacce, violenza fisica e la chiusura di sedi giornalistiche. Con questi metodi si è instaurata una forma di autocensura preventiva nei media palestinesi.
Il Palestine Media Center di Ramallah, diretto dal ministro della Cultura e dell' Informazione Yasser Abed Rabbo, è descritto come una istituzione indipendente ed ufficiale, ed è finanziato dall' Unione Europea. Rabbo tuttavia considera le relazioni con la stampa come una estensione della causa palestinese, come egli stesso ha confermato ad una delegazione dell' Associazione della Stampa Estera che nel settembre del 2001 aveva protestato contro le minacce rivolte nei confronti di fotografi free-lance palestinesi e stranieri che avevano fotografato le celebrazioni di gioia avvenute nelle strade della Palestina dopo l' attentato dell' 11 settembre. Gli interessi nazionali palestinesi debbono prevalere sulla libertà di stampa, disse Rabbo in quell' occasione.
La dimostrazione di quanto pesassero quelle parole si ebbe quando un fotografo della Associated Press, che aveva ripreso i festeggiamenti per l' attentato alle Torri Gemelle ed al Pentagono, fu minacciato di morte da esponenti ufficiali dell' Autorità Palestinese; lo stesso segretario di gabinetto di Arafat, Ahmed Abdel Rahman, aggiunse a commento dei fatti che l' Autorità Palestinese non riteneva di poter garantire la vita al fotografo se quanto egli aveva ripreso fosse stato trasmesso in televisione.
La maggior parte dei giornalisti stranieri non parlano bene l' arabo, e dipendono di conseguenza dai loro collaboratori locali. Si tratta spesso di giovani colti e poliglotti, accreditati anche presso l' Ufficio stampa del governo israeliano, e che pertanto sono in condizione di muoversi liberamente per organizzare interviste con dirigenti palestinesi e colloqui con la popolazione.
Tutti questi collaboratori sono però fortemente motivati sul piano ideologico - nazionalistico, ed incoraggiano i giornalisti che si servono di loro a descrivere solamente i disastri provocati dall' occupazione israeliana, sorvolando sui problemi sociali e di carenza democratica dei territori palestinesi.
Sono anche molti i giornalisti stranieri che hanno imparato a loro spese che intervistare Arafat non significa potergli rivolgere qualsiasi domanda. Il 29 marzo 2002 Arafat ha buttato giù il telefono a Christianne Amanpour della CNN che gli aveva chiesto se egli potesse tenere sotto controllo la violenza. Un giornalista del tedesco Spiegel, che nel 1999 aveva chiesto ad Arafat un commento sulle notizie di corruzione nell' ambito dell' Autorità Palestinese, fu accusato di essere un agente segreto israeliano ed espulso. Il 6 gennaio 2003 Seif al-Din Shahin, corrispondente da Gaza di Al Jazeera, è stato arrestato dalle forze di sicurezza palestinesi con l' accusa di aver danneggiato gli interessi del popolo palestinese, per aver riferito che le Brigate Al Aqsa, ala militare del Fatah, avevano rivendicato il doppio attentato suicida di Tel Aviv.
La quasi totalità dei filmati televisivi su quanto avviene nei territori palestinesi è opera di cameramen palestinesi. Le agenzie di stampa straniere sono pertanto fortemente dipendenti dai loro collaboratori palestinesi.
La conseguenza di questa situazione è sotto gli occhi di tutti: ogni giorno si vedono nelle televisioni occidentali palestinesi morti e feriti, dimostrazioni popolari, funerali, scene riprese negli ospedali e nelle camere mortuarie, famiglie in lutto, case distrutte e campi sconvolti. Non si vedono invece sparatorie, scontri a fuoco, attacchi con i missili contro militari e civili israeliani, ed altre violenze.
Il migliore esempio di come vengono gestite le riprese fatte in territorio palestinese da operatori televisivi e fotografi palestinesi è quello della morte del bambino Muhammad al-Dura, ripresa dal cameraman Talal Abu Rahama, che lavorava per il canale televisivo francese France 2. Benché fosse pressoché certo che il bambino era stato ucciso in uno scambio di colpi fra esercito israeliano e polizia palestinese, si mistificò la tragica sequenza presentandola come un "tiro al bersaglio" israeliano, e della morte di questo bambino si fece un simbolo dell' intifada, una icona della sofferenza inflitta ai palestinesi da Israele. Il fotografo, che negò che fossero stati gli israeliani ad uccidere il bimbo, fu messo a tacere. In seguito, un raffronto fra tutte le riprese effettuate quel giorno in quel luogo fornì la prova che i fotografi palestinesi erano stati parte attiva dell' evento ed avevano poi venduto alle agenzie straniere materiale corretto in fase di edizione. Una successiva inchiesta tedesca avanzò addirittura l' ipotesi di una collaborazione di alcuni giornalisti nel mettere in scena quella uccisione.
Un evento che ha modificato le regole del modo di presentare la violenza palestinese da parte dei media occidentali è stato sicuramente il linciaggio di due riservisti israeliani in un posto di polizia palestinese, nell' ottobre del 2000. Il produttore palestinese Nasser Atta, collaboratore della rete americana ABC, ha riferito nel programma di Ted Koppel di come il suo cameraman era stato malmenato ed i suoi giornalisti minacciati per aver ripreso il linciaggio. La polizia palestinese aveva anche circondato e malmenato una troupe televisiva polacca, alla quale furono poi confiscati i nastri già registrati. Il giorno seguente al linciaggio di Ramallah, come è noto, anche il giornalista RAI Riccardo Cristiano, che già era stato picchiato a Jaffa, scrisse una lettera ai "cari amici della Palestina", in cui li "rassicurava" del fatto che "noi (della RAI) abbiamo sempre rispettato le regole dell' Autorità Palestinese sulla stampa".
Il direttore dell' Ufficio Stampa del governo israeliano ha accusato una parte della stampa estera, inclusi Associated Press e Reuters, di coordinare regolarmente i loro servizi con l' Autorità Palestinese. Barghouti, il leader di Al Fatah ora sotto processo in Israele, era ad esempio solito preavvisare la stampa estera delle sparatorie che da parte palestinese sarebbero iniziate contro il quartiere Gilo di Gerusalemme, in modo che essa potesse testimoniare che gli israeliani sparavano contro il quartiere arabo di Beit Jalla (dal quale partivano gli attacchi).


Questa analisi è tratta da un articolo di Dan Diker pubblicato da Honest Reporting e corredato da una dettagliata elencazione delle fonti; altro materiale potrà essere reperito in http://www.freedomhouse.org/pfs2000/reports.html#ispa,
http://web.amnesty.org/web/ar2001.nsf/webmenafr?OpenView,
http://honestreporting.com/a/r/400.asp.