E' possibile una democrazia nel mondo arabo?
Il futuro del Medio Oriente :la responsabilità nel mondo arabo in un'analisi di Galli della Loggia
Testata:
Data: 13/04/2003
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Autore: Ernesto Galli della Loggia
Titolo: Il futuro dell'Islam
Riportiamo un articolo di Ernesto Galli della Loggia pubblicato sul Corriere della Sera domenica 13 aprile 2003
Può essere naturalmente che tutto si risolva nell'ennesima ondata di proteste antiamericane in una ancora maggior astilità verso l'Occidente. Ma oggi è comunque ragionevole chiedersi cosa debba mai accadere, oltre ciò che è già accaduto, perchè finalmente, invece di cercare alibi e capri espiatori, il mondo arabo inizi un discorso di verità sul proprio conto interrogandosi sui propri limiti e i propri errori. Che cosa deve accadere oltre il dissolversi del più importante regime del "socialismo arabo" nel ridicolo di esibizioni muscolari rivelatesi di cartapesta e nell'odio popolare? Che cosa oltre lo spettacolo dei carri armati americani che sfilano sotto le due scimitarre incrociate lungo la via dell'impero di Bagdad accolti dagli evviva degli iracheni? Sì, forse questa volta lo schock è troppo forte per essere rimosso se è vero che gia l'altro giorno il commentatore di un importante giornale pan-arabo ha scritto queste testuali parole: " Siamo noi i responsabili di ciò che ci sta capitando. Il problema è in noi, nessuno ce lo ha messo sulle spalle".
E' proprio così. Da oltre trent'anni il mondo arabo riesce a produrre solo convulsioni e immobilismo. Sotto la cappa di governi più o meno tutti autoritari (quasi tutti "ferocemente" autoritari) ogni fermento, ogni aggregazione nuovi, sono stati immancabilmente condannati a divenire illegalità, delirio estremista, attentato, o a esaurirsi nel nulla. Da decenni le società di quel mondo sono come pietrificate in un eterno statalismo intriso di prevaricazione e di controlli. Solo la religione sembra riuscire ad agitarle e a commuoverle, ma in un rimescolio di elementi contradditori tenuti insieme per solito da un radicalismo aggressivo e tanto capace di essere antagonista e retrogrado quanto incapace di indicare la via verso qualcosa di realmente diverso. Sul versante laico, dall'altra parte, la fine di Saddam Hussein suggella la definitiva uscita di scena del "socialismo arabo" di cui sopra, l'unico tentativo a suo modo originale con cui la cultura politica del Maghreb e del Medio Oriente si era illusa - ormai quarant'anni or sono - di riuscire a fare i conti con la modernità.
La sua fine lascia il vuoto assoluto di idee e di esperienze. Con tassi di sviluppo economico molto bassi e di crescita demografica molto alti, con apparati industriali ovunque inesistenti (anche dove la rendita petrolifera avrebbe consentito notevoli investimenti), affollate di analfabeti, con una produzione scarsissima di libri, di ricerca, di cultura, le società arabe si sono abituate a trovare nell'anti occidentalismo la consolazione dei loro mali. L'odio contro Israele e contro gli Stati Uniti è servito e serve ad occultare le proprie storiche incapacità, le proprie debolezze.
L'antisemitismo da un lato e il rito della bandiera americana data alle fiamme dall'altro costituiscono la droga periodicamente somministrata alle masse da monarchie feudali, da raìs nazional-populisti, da equilibristi consumati tipo Arafat, insomma da gruppi dirigenti che mancano tutti di qualunque autentica leggittimazione politica e che, una volta privati dello scudo dell'esercito, dei servizi segreti nonchè dell'alibi antisionista sarebbero sicuramente spazzati via nel giro di neppure una settimana.
E' nel cuore di questo scenario sclerotizzato e fragilissimo, il quale non riesce più da tanto tempo a esprimere dal proprio interno alcun dinamismo, che si è materializzata d'improvviso, quasi come un miraggio che diviene realtà, la presenza di centinaia di migliaia di soldati americani: con la mirabolante abbondanza di cose che li accompagna, con il loro tratto disinibito e diretto, con la propensione a fare piazza pulita di ogni oppressione, con la bandiera della democrazia a proprio emblema. Piantata tra Tigri ed Eufrate, nel mezzo del mondo arabo, la loro è una presenza straordinaria che costituisce al tempo stesso un monito ineludibile e un'occasione unica.
L'occasione per quel medesimo mondo di voltare pagina in modo deciso, di capire che non può più andare avanti come ha fatto finora, tra subalternità socio-culturale, frustrazione ed aggressività. L'occasione di capire, infine, che i suoi principali nemici si annidano al suo interno, e sono la mancanza di libertà e di verità.
Come non ipotizzare, almeno, che la fulminante comparsa degli americani in mezzo a loro possa rappresentare la spinta dall'esterno di cui le società arabe hanno un disperato bisogno se vogliono ripartire? Non, di certo, per diventare una caricatura dell'America ma per trovare, finalmente, nella propria tradizione i materiali adatti a costruire forme sociali più prospere e più umane. L'Islam non è certo morto a Bagdad. E' da lì, anzi, che può cominciare a vivere di una nuova vita se solo osasse, finalmente, contaminarsi con i valori della democrazia.
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