Terrorismo, road map, antisemitismo
Ecco come la pensa Ehud Gol ambasciatore d'Israele a Roma
Testata: Libero
Data: 09/04/2003
Pagina: 1
Autore: Renato Farina
Titolo: Israele e la guerra
Riportiamo l'intervista di Renato Farina a Ehud Gol pubblicata su Libero mercoledì 9 aprile 2003.
Una risposta c’è, e basta ad illuminare di livida luce il panorama non solo della guerra ma del dopoguerra in Israele. Ed è una non risposta, il rifiuto di parlare sulla questione irachena e sulle sue conseguenze per il Medio Oriente. «È pericoloso! Di questo non parlo mentre l’attività bellica è ancora in corso», dice con la consueta cortesia l’ambasciatore d’Israele a Roma, Ehud Gol. Aveva scritto ieri Vittorio Feltri: «I Paesi arabi sono in fermento... Stiamo in guardia. Aggrediranno Gerusalemme». E contemporaneamente sulla Stampa, Igor Man, che di arabi la sa lunga, conferma la minaccia: «La Palestina (per gli arabi) è una ferita non più sopportabile... avremo la devastante bomba atomica dei poveri». Viene da dire: poveri mica tanto. Gli arabi che hanno le armi non sono poi tanto poveri... Ambasciatore, ha letto questi articoli? Da punti di vista culturali e politici assai diversi, giungono alla stessa conclusione: Israele è coinvolta direttamente nel post Saddam. Che giudizi dà di questa situazione? «Oggi per me, come rappresentante di Israele in Italia, è pericoloso parlare della guerra in Iraq e del futuro assetto del Medio Oriente. La guerra in Iraq non è finita. Sarà più facile esprimersi dopo. Non sottovaluti la situazione in corso, che è ancora delicata e sensibile per la coalizione e soprattutto per gli Stati Uniti d’America. Dopo la fine della guerra sarà più chiaro il quadro, e allora un giudizio avrà più ragion d’essere».
Che nesso c’è tra Israele e la guerra? Barbara Spinelli ha sostenuto l’idea che ormai l’America si è israelizzata. Insomma che è intervenuta per difendere Israele... «Il nesso tra Israele e questa guerra non esiste, mi capisce? Non esprimiamo opinioni tranne questa, e in modo perentorio. Non c’entriamo. Abbiamo deciso il silenzio, da venti giorni proprio per evidenziare questa distanza: taciamo, punto. Non siamo intervenuti mentre era in corso la discussione in Consiglio di sicurezza. Ora meno che mai. Bisogna stare agli atti: l’azione in corso nell’Iraq fa parte della guerra più generale contro il terrorismo, è per la sicurezza del mondo intero, vuole sradicare una dittatura che minaccia tutti e eliminare le armi di distruzioni di massa esistenti e la possibilità che se ne costruiscano di nuove. Stop. Israele è come il resto del mondo. Se si stabilisse un legame diretto (che non c’è!) tra la guerra in Iraq e la difesa di Israele, la situazione diverrebbe estremamente complicata e pericolosa». Eppure, nell’incontro a Belfast tra Bush e Blair, in corso mentre registriamo questa intervista, in agenda c’è Israele e la questione palestinese. Sembra una mossa per mettere alle strette Israele. «La questione è delicata, vedremo a guerra finita. Noi constatiamo questo: c’è una "road map" proposta dal Quartetto....» ...Il Quartetto di Madrid ha proposto una mappa stradale per la pace, con varie fasi, e che permetta la costituzione di uno Stato palestinese... Ora dovrebbe esserci un’accelerazione... «Ehi, la "mappa" non è parola sacra, non è la Bibbia. Si può discuterne. Noi constatiamo questo: il quartetto è composto da quattro realtà. Be’, una sola è nostra amica...».
Gli Usa. Gli altri sono tutti ostili? «L’Onu ci ha sempre guardato con ostilità, del resto è per la maggioranza formato da Stati dittatoriali, che credibilità ha? Va bene, l’Onu. Ma quale Onu?». Insomma rilancia la questione della riforma di questo organismo. Poi c’è la Russia, nel Quartetto... «La Russia ha dato armi all’Iraq e alla Siria, e questo è preoccupante non solo per Israele ma per gli Stati Uniti d’America. Infine c’è l’Unione europea. Su quindici Paesi, tredici hanno posizioni critiche verso Israele». Chi salva? «L’Italia, la Spagna. Poi, vede, la Germania è in una situazione delicata. Quanto alla Gran Bretagna, Blair è sottoposto a pressioni dell’opinione pubblica avversa all’intervento in Iraq, e negli ultimi due-tre mesi ha dovuto accontentare posizioni filopalestinesi». Come giudica in questi tempi di guerra l’opinione pubblica internazionale su Israele? «Da quasi tre settimane, Israele è fuori dagli interessi della stampa. Il 16 marzo c’è stata la tragedia della pacifista americana Rachel Corrie, travolta da un bulldozer a Rafah. La notizia è durata 24 ore. Senza la guerra in Iraq la reazione sarebbe stata inimmaginabile. Appena la guerra finirà, il fuoco dell’interesse si concentrà su di noi, e sarà un momento molto difficile per Israele. L’opinione pubblica sarà influenzata nuovamente in maniera negativa».
Ha notato il montare di un nuovo antisemitismo in Italia? «Quelli che nei cortei urlano pace-pace-pace, finiscono per legittimare l’estrema sinistra e gli islamici che lanciano slogan durissimi contro Israele. E la distinzione in questi casi tra critica feroce a Israele ed antisemitismo è sottilissima».
E che dice di quelli che vedono nell’amministrazione di Bush la longa manus dell’ebraismo? «Gli americani sono 170 milioni, gli ebrei in America sono sei milioni. Che qualcuno di loro lavori per Bush è normale. Comunque - può piacere o no - ma l’85 per cento degli ebrei americani vota per il partito democratico. E c’è una percentuale di ebrei contro la guerra in Iraq superiore alla media del popolo americano. Detto questo. I discorsi di quel tipo, e la presa che hanno avuto su molti intellettuali, ritengo siano documento di antisemitismo puro».
Ha letto le interviste del presidente siriano Assad e... «Certo, ho letto anche quella del ministro della Difesa siriano, sul Corriere della Sera. E le ritengo preoccupanti: non solo per noi, ma anche per l’America».
Crede che la Siria abbia armi di distruzione di massa? «Non posso discuterne in questa sede».
Ma lei crede possibile che si possa arrivare davvero a due Stati per due popoli, ad una convivenza di Israele con i Paesi arabi? «Senza violenza e senza terrorismo dall’altra parte è pensabile arrivare a soluzioni pacifiche. Con questa leadership è impossibile».
Ripeto: ora Bush e Blair formuleranno proposte... «Le proposte potranno valere se prima non c’è violenza e terrorismo. Poi potremo entrare in negoziazioni. Non vale la pena dettagliare a, b, c e d senza che si sia chiarito l’aspetto fondamentale. L’Autorità nazionale palestinese deve contrapporsi a chi teorizza e pratica il terrorismo, e non lo ha ancora fatto, né avvertiamo segnali».
Eppure la nomina del nuovo primo ministro Mahmoud Abbas (Abu Mazen), voluta dal Quartetto e accettata obtorto collo da Arafat, può essere un momento di svolta positiva... «Non è ancora primo ministro, non ha ancora nominato il governo, non sono chiare le sue competenze».
Ma è meglio di Arafat, per lo meno... «Chiunque è meglio di Arafat, un leader del terrore dal primo momento ad oggi. Ci sarà uno sviluppo positivo se a livello di Autorità palestinese e di governo si avvierà un processo di democratizzazione. Non possiamo pretendere la democrazia all’Occidentale, ma un avvio di riforme».
In Italia avete più amici a destra o a sinistra? «Abbiamo un eccellente rapporto con l’Italia. Non coltiviamo rapporti coi partiti. Ma abbiamo molti amici, sia a destra sia a sinistra. Nomi non ne faccio».l È vero che molti, stante l’insicurezza di Israele, pensano di andarsene via? «No, no, no! Qualcuno c’è. Da noi c’è la libertà di andarsene, per fortuna. Ma siamo uniti. Amiamo la nostra terra».l Anche i palestinesi... «Guardi, una soluzione è possibile, se abbandonano radicalmente la violenza e il terrorismo».
Vi aspettate una aggressione missilistica immediata? Siete pronti? «Guardi. In 55 anni della nostra esistenza noi siamo ancora vivi perché nemmeno un giorno abbiamo smesso di essere pronti. Ora però non insista a farmi parlare di questa guerra, è un po’ pericoloso oggi».
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