Una casa in fiamme Laura Forti
Guanda euro 17“Ho capito che la gioia non è meno autentica del dolore. Ho capito che se non riesci a provarla e apri la porta solo alla tristezza è una tua responsabilità, una tua scelta. E’ come permettere che il palazzo bruci, che il danno prevalga sulla salvezza”
Ci sono libri che hanno un linguaggio universale, che per le tematiche affrontate e la potenza della narrazione sanno parlare a un pubblico eterogeneo di genitori, adolescenti, single, regalando la magia di una storia senza tempo.
E’ il caso dell’ultimo romanzo di Laura Forti, scrittrice, drammaturga e docente di scrittura teatrale che la casa editrice Guanda pubblica col titolo “Una casa in fiamme”.
Dopo “L’acrobata” e “Forse mio padre” (Giuntina) in cui l’autrice si è calata nella storia della sua famiglia per ritrovare le tessere di una memoria familiare “tutt’altro che completa e perfetta”, nell’ultimo libro Forti si discosta dalla dimensione autobiografica e ci narra le vicende di una famiglia ebraica nell’Italia di oggi.
Manuela, protagonista e voce narrante, vive una quotidianità rassicurante con il marito e i figli fino alla scoperta di avere un cancro al seno: una notizia dirompente paragonabile a un incendio che brucia le solide pareti di una casa. Un’immagine angosciante quella del fuoco che torna in modo ricorrente nei suoi sogni e la lascia preda di una profonda tristezza.
In una narrazione che si dipana nell’arco di un anno, da estate a estate, la malattia è l’elemento che rischia di disgregare equilibri consolidati ma è anche il motore che porta alla luce disagi, turbamenti e contraddizioni mettendo alla prova la solidità del matrimonio e i rapporti con i figli. Manuela è una scrittrice che dopo l’operazione e la radioterapia ha qualche difficoltà a riprendere gli impegni professionali, il marito Sergio è un ingegnere spesso lontano da casa, il piccolo Elias nato dopo un doloroso aborto, l’”evento” di cui non si parla in famiglia, ha difficoltà a scuola per problemi di dislessia mentre Lea è una ragazzina in apparenza perfetta, orgoglio del padre di cui asseconda le aspirazioni. In realtà ogni componente della famiglia nasconde un grumo di sofferenza che spezza quel cerchio magico di perfezione che mostra all’esterno e che emerge pagina dopo pagina in un doloroso processo di svelamento.
Il tentativo di ritrovare una normalità perduta durante un soggiorno al mare va a rotoli quando il gattino randagio accolto in famiglia cade da una finestra lasciata inavvertitamente aperta. Oppure qualcuno l’ha gettato? Mentre Sergio non pare preoccuparsi troppo, Manuela coglie alcuni indizi che le fanno mettere in dubbio la fiducia che ha sempre riposto nei figli. In più, al ritorno dalle vacanze trova il diario di Lea: in poche frasi è racchiuso tutto il disamore, quasi odio, verso la madre che nei mesi della malattia si è progressivamente isolata nella sua camera, lasciando al marito le incombenze casalinghe e la cura dei figli. La certezza di essere amata dal marito, benchè il sentimento si sia affievolito con gli anni, si sgretola definitivamente quando scopre che Sergio ha una vita sessuale segreta che si muove nel sottobosco del web. Quanti segreti si celano in una famiglia sotto un’apparenza di perbenismo?
Descrivendo uno spaccato di vita familiare, tutt’altro che inusuale, l’autrice si rivela una maestra nell’indagare l’animo umano e nel sollevare domande che ci interrogano sulla complessità delle relazioni familiari e sulla necessità di sciogliere quei nodi nei rapporti affettivi che impediscono di vivere una dimensione autentica della vita. E’ lo stesso approccio intimista che, a parere di chi scrive, si ritrova nei meravigliosi romanzi di Zeruya Shalev, definita la “terapista letteraria d’Israele”.
Tutti i personaggi, che l’autrice scolpisce con sensibilità e rispetto, si trovano ad affrontare l’evento traumatico della malattia di Manuela senza essere preparati (ma chi è preparato dinanzi a un simile tsunami che piomba nella nostra vita?) e nel contempo cercano di costruire o quanto meno immaginare una dimensione normale dell’esistenza che non è più tale.
Ben delineata è la figura di Sergio di cui l’autrice mette in luce le contraddizioni e i rovelli interiori: ebreo osservante e rispettoso delle tradizioni ebraiche, ha lottato tutta la vita con il padre Gioele, nato in Israele, che lo ha sempre osteggiato nelle scelte di studio e di lavoro e si è confrontato con i fantasmi dei bisnonni morti suicidi prima di essere deportati a Fossoli, oltre che con il ricordo del nonno Beniamino di cui leggendo il diario scoprirà il tragico destino. Gioele è una figura complessa, a tratti respingente, che vive il suo essere ebreo in modo conflittuale; è in perenne contrasto con le tradizioni religiose e riversa sul figlio le amarezze di un passato traumatico.
Anche per i ragazzi non è facile confrontarsi con la malattia della madre: se Elias è fragile e insicuro, incapace di affrancarsi dalla presenza/sostegno della mamma, Lea si sta trasformando in una ragazzina ribelle in una costante ricerca di autonomia e indipendenza.
Sembra una famiglia lanciata verso un precipizio…
In realtà la serata che Manuela organizza per il seder di Pesach - una delle pagine più intense del romanzo in cui l’autrice affronta i tanti modi di essere ebreo - con la presenza dell’amica mussulmana di Lea e del rabbino Ottolenghi, si trasforma in un momento di confronto/scontro fra generazioni diverse perché le domande che in genere vengono poste come da tradizione, diventano qui provocatorie e inopportune, ma necessarie per portare alla luce i segreti del passato e innescare un cambiamento salvifico per tutta la famiglia.
Una metamorfosi che prende corpo con una notizia finalmente positiva per Manuela che trova la forza di riprendere in mano i progetti di lavoro, di sostenere il piccolo Elias infondendogli fiducia, di ascoltare Sergio e riavvicinarsi a Lea raggiungendola al Gay Pride, un evento che simboleggia la libertà della vita, il rispetto e il riconoscimento dei diritti di tutti.
Sotto le bandiere arcobaleno questa famiglia tradizionale, i cui equilibri sono stati scardinati da eventi e situazioni imprevedibili, ritrova il cammino da percorrere insieme e ciascuno a modo proprio avvia un cambiamento che seppur doloroso è preludio a una rinascita che si apre al futuro.
La necessità di mettere in atto un mutamento di prospettiva è il fulcro attorno al quale si muove il romanzo per il quale Laura Forti ha tratto spunto da un midrash che paragona la chiamata di Abramo a un uomo che, vagando di terra in terra, si trova di fronte a un palazzo in fiamme e chiede: “Possibile che il palazzo non abbia un padrone? Il palazzo rappresenta l’universo e le fiamme il male che lo tormentano. La domanda di Abramo significa dunque “Possibile che il padrone dell’universo non si curi del male che rischia di distruggerlo? Il fatto è che per donare la libertà Dio si è “ritirato” dal mondo e ha lasciato l’uomo libero di agire e di ribellarsi all’ingiustizia. Così le fiamme non si possono spegnere se non ci mettiamo il nostro impegno.
“Se non ci fosse il male – dice il rabbino Ottolenghi a Manuela – se il palazzo non andasse a fuoco come faremmo a scegliere quello che per noi è giusto?”
Ne “Una casa in fiamme” Laura Forti riprende uno dei temi fondamentali della sua narrativa, quello della Memoria, e si conferma un’autrice di talento capace come poche di scavare nelle nostre fragilità, nella complessità dei legami familiari per condurci in un viaggio alla ricerca dell’autenticità dei rapporti, dello smascheramento delle apparenze e trasformando il racconto in una vicenda universale in cui ciascun lettore potrà scoprire qualcosa di sè.
Giorgia Greco