Bacon a Mosca
Recensione di Diego Gabutti
James Birch, Bacon a Mosca, Edizioni e/o, pp. 204, 27,00 euro, eBook 12,99 euro.
Mosca, 1° dicembre 1962. Tempi di Disgelo. Novyj Mir, la rivista letteraria ufficiale del regime, ha appena pubblicato Una giornata di Ivan Denisovič, il romanzo di Solženicyn che cambierà la storia dell’Unione sovietica e del mondo. Gli sputnik orbitano intorno alla Terra, a Leningrado circolano i primi samizdat. Tutto cambia. Al punto che nei locali dell’ex Maneggio viene allestita una mostra d’arte contemporanea, la prima a ospitare opere astratte. In Urss non s’era mai visto niente di simile. Andrej Zdanov e il suo padrone, Peppone Stalin, consideravano l’astrattismo «arte degenerata» (non diversamente dai nazisti, che a «degenerata», per buon peso, aggiungevano «giudaica»). Ma d’un tratto ecco che in Unione sovietica l’arte non ha più la museruola: si può parlare del Gulag, si può dipingere quel che si vuole.
Gli artisti invitano Nikita Chruščëv, segretario generale del partito, a visitare la mostra. Lo sventurato accetta. È una visita che entrerà nella storia, come si legge in C’era una volta l’Urss di Gian Piero Piretto (Raffaello Cortina 2018): «Chruščëv si sforza di comprendere che razza di quadri ha di fronte e che razza di gente li ha dipinti. [...] Uno dei dipinti in mostra è definito dal suo autore “autoritratto”. L’irritato commento del leader è: “Ma come ha fatto lei, un giovanotto così bello, a dipingere una tale stronzata! Due anni alla raccolta del legname!” [...] Aggiunge che un asino – usando la coda – avrebbe dipinto meglio di tutti quanti loro. È volgare, irruente e violento. In preda all’ira grida: “Merda!” E poi, pestando i piedi: “pidarasy”, deformazione popolare di “pederasty”. A quel punto quelli che lo accompagnano si mettono a gridare in coro: “Pidarasy! Pidarasy! Bisogna arrestarli! Arrestarli tutti!”»
D’astrattismo, per 26 anni, fino all’ottobre del 1988, non si parla più. Torna di scena con la perestrojka, quando James Birch, gallerista londinese, mercante d’arte e curatore di mostre, porta Francis Bacon a Mosca. Tra la mostra del Maneggio, nel 1962, e quella di Bacon, ventisei anni dopo, ci sono stati di mezzo eventi a dir poco cosmici, l’equivalente novecentesco del meteorite che settanta milioni d’anni fa cancellò i dinosauri dalla faccia del mondo: la crisi dei missili, la pubblicazione di Arcipelago Gulag, l’umiliazione dell’Armata rossa in Afghanistan, l’implosione del Patto di Varsavia, la vittoria dell’Occidente nella guerra fredda. Manca poco all’abbattimento del Muro di Berlino e presto non ci saranno più bandiere rosse a sventolare sulle cupole del Cremlino. Tra le altre batoste, inimmaginabili fino a un momento prima, chiude la lunga parentesi del comunismo russo anche la mostra Francis Bacon a Mosca.
James Birch racconta la storia di Bacon (1909-1992): irlandese, omosessuale, le sue opere hanno per soggetto figure in disfacimento e per tema «la brutalità dei fatti». Bacon è qui alla sua ultima grande impresa: prendere d’assalto il Cremlino. Giovane gallerista in carriera, Birch non deve convincere soltanto Bacon, un amico di famiglia da prima che lui nascesse ma anticomunista e thatcheriano, a esporre in Urss. Deve convincere anche il KGB. Gli presentano Sergej Klokov, un čekista amico di Pierre Cardin, con agganci nella nomenklatura sovietica e nel jet set internazionale. Klokov, personaggio inquietante, tra la Swinging London e le stanze della tortura giù nelle segrete della Lubjanka, gli faciliterà il compito (e ne ricaverà, con l’inganno, anche un bel po’ di soldi).
È un momento magico, che precede di pochi anni lo scenario attuale, quello esattamente descritto dall’espressione «scontro di civiltà», detestata dai non vedenti ideologici: Islam contro Occidente, dispotismo asiatico contro le democrazie, l’autocrazia russa contro la Nato. Al Cremlino, dove per settant’anni hanno regnato burocrati horror straordinariamente simili ai «papi urlanti» e alle altre figure mostruose delle tele di Bacon, regneranno presto nuovi zar: prima un alcolista cleptomane, poi un sadico ex colonnello del KGB i cui smisurati appetiti geopolitici (e lo sguardo gelido, da serpente) risulterebbero fuori misura anche nel peggior polpettone hollywoodiano. Un visitatore della mostra, nel 1988, lascia scritto nel libro delle dediche che campeggia all’ingresso dell’esposizione: «Se devo essere sincero, questa mostra mi ha depresso. Nei dipinti ho visto pessimismo e cattiveria. Ma è sempre meglio del realismo socialista».