'Speranza contro speranza', di Nadežda Mandel’štam
Recensione di Diego Gabutti
Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza. Memorie 1, Settecolori 2022, pp. 654, 28,00 euro.
Stalin aveva dichiarato guerra alla società intera, ai contadini, all’intellighenzia, al proletariato, e non soltanto ai poeti, che per salvarsi dalla morte nei campi siberiani, dove le temperature scendevano fino ai 40-50 gradi sottozero e il menù era una broda di bucce di patate, dovevano cantare le sue lodi e quelle del partito. E anche così, del resto, non era detto che si salvassero. Ma con i poeti, che non avevano il fisico e nemmeno la risolutezza dei cospiratori, la Santa Inquisizione bolscevica, con i suoi modi brutali da banda armata o da racket criminale, era particolarmente severa: quelle metafore sdolcinate, le rime, la melodia, tutto quel frou-frou.
Iosip Mandel’štam, per la verità, in un’occasione – primi anni trenta, all’inizio dell’età del terrore – la fece un po’ fuori dal vaso, come si dice: la sua poesia sul «montanaro del Cremlino» – «lo sbaragliamugicchi», con i suoi «mustacchi da scarafaggio» e il suo «largo culo da georgiano», ogni «assassinio una cuccagna» – colpì il bersaglio, che rispose colpendo lui. Mai messa per iscritto, ma naturalmente arrivata lo stesso alle orecchie del Padrone grazie a una rete d’informatori vasta come tutta la nazione, la poesia non aveva niente di caramelloso e gli costò gli ultimi brandelli di vita ordinata. Era una bella poesia, qualunque cosa ne dicessero gli amici spauriti e i critici devoti al Grande cannibale. Piaceva persino a Genrich Jagoda, commissario del popolo per gli affari interni e capo del Ghepeù («gli piaceva talmente che l’aveva imparata a memoria»). Era bella e diceva la verità: esattamente quel che deve fare una poesia. È per questo – per la musica delle sue rime e per la verità che proclamava, nonché per il modo in cui la proclamava, passando sottovoce d’orecchio in orecchio – che ricorderemo la poesia anche dopo esserci dimenticati di Stalin, dei suoi baffi, del suo posteriore, e persino del poeta che l’aveva sfidato.
Fino a quel momento, prima d’essere arrestato e presto rimesso in libertà dopo una stupefacente telefonata di Stalin a Boris Pasternak, il quale aveva osato intercedere per l’amico finito nelle grinfie della Čeka, Osip Mandel’štam e la moglie Nadežda (autrice di questo eccezionale Speranza contro speranza, il primo volume delle sue memorie, uno dei grandi libri del Novecento) vivevano di rare traduzioni, di qualche collaborazione giornalistica con testate di provincia, d’anticipi micragnosi e umilianti per libri poi mai pubblicati. Dopo l’affaire del «montanaro» – con le sue «tozze dita» simili a «grossi vermi», circondato da «una marmaglia di mezz’uomini», «chi zirla, chi miagola, chi fa il piagnucolone / lui, lui soltanto, mazzapicchia e rifila spintoni» – finirono per vivere d’elemosina, dei pochi rubli che qualche amico allungava loro di nascosto e che li ospitava in segreto per un po’. Nadežda e Osip erano diventati fuorilegge dell’universo. Invisibili, coperti di stracci, eternamente affamati, erano stati banditi dalla «vita sovietica» e adesso Stalin e i suoi mezz’uomini aspettavano il momento in cui il mazzapicchio, che i cekisti facevano roteare nell’aria, si sarebbe abbattuto anche sulle loro teste e su tutte le teste, stramazzandoli, come bestie al macello.
Non c’era legge, non c’era diritto. C’erano solo Stalin e le sue «parole esatte come i pesi d’un ginnasta»; e prima di lui Lenin, che aveva trasformato San Pietroburgo («la mia città, fino alle lacrime ben nota») in Leningrado, versione terrena di Pandemonium, la città infernale.
«Era ridicolo» – scrive Nadežda Mandel’štam – «affrontare la nostra epoca dal punto di vista del diritto romano, del codice napoleonico o delle altre norme del diritto tradizionale. Gli organi addetti alla repressione agivano con precisione, cautela e sicurezza» (tanto più con l’autore della poesia sul montanaro). «Si proponevano molti fini: eliminare i testimoni in grado di ricordare qualcosa, instaurare il più severo conformismo ideologico, preparare l’avvento d’un regno millenario e così via. La gente veniva eliminata a strati, per categorie (anche l’età veniva presa in considerazione): il clero, i mistici, gli scienziati inclini all’idealismo, le persone dalla battuta facile, gli obiettori, i pensatori, i lingualunga, i taciturni e i contestatori, chi aveva qualche idea in campo giuridico, politico o economico, e poi ancora gli ingegneri, i tecnici e gli agronomi, per i quali era stato creato il concetto di “sabotatore”, utile a spiegare qualunque insuccesso o errore di calcolo».
Arrestato una seconda volta nella primavera del 1937, Mandel’štam sparì nel gulag, diretto alla Kolyma, tra i dannati, che lui conosceva bene, da lettore e commentatore di Dante. Morì forse nel 1938. Nadežda gli sopravvisse 42 anni, fino al 1980. Anna Achmatova – sua amica fin dalla giovinezza (e come lui «acmeista», questo il nome, non so dire quanto importante, della loro scuola di poesia) – scomparve nel 1966, scampata a tutte le vessazioni. Nonostante Stalin, a dispetto del Gulag, delle persecuzioni, della fame, lei e Mandel’štam erano stati riconosciuti, alla fine, tra i massimi poeti del secolo insieme a Cvetaeva, Auden, Yeats. «Donna rude, brechtiana, solida come l’acciaio, di grande intelligenza e di coraggio sconfinato, nessuna illusione, convinzioni incrollabili e un senso stravagante dell’assurdità della vita», come dice Clarence Brown in un saggio che compare in appendice a Speranza contro speranza, Nadežda scrisse un libro – questo libro – che sta all’inferno della vita quotidiana in Urss come Arcipelago Gulag e Se questo è un uomo agli orrori dei campi di sterminio, detti eufemisticamente «di lavoro».
Erano tempi spaventosi, tempi da lupi, un’eterna notte di luna piena, come nelle storie dell’orrore.
«A Taškent» – racconta Nadežda – «quando vi abitavo con Anna Achmatova, non di rado, tornando a casa, trovavamo il portacenere pieno di cicche altrui, oppure un libro, una rivista, un giornale lasciati lì e venuti chissà da dove. Una volta, sul tavolo da pranzo, trovai in piena vista addirittura un rossetto dal colore vistoso, e accanto a esso uno specchietto, trasmigrato lì dalla stanza vicina».
Non c’era casa, nel paese degli orchi, che non fosse infestata dai fantasmi, dai folletti e dai gremlins della polizia politica. C’erano rapimenti alieni in tutte le famiglie e in ogni caseggiato: in coda per il bagno, il mattino, mancava spesso qualcuno, portato via nella notte dagli Ufo cekisti. Non se ne avevano più notizie. Capitava che qualcuno tornasse dieci, quindici, vent’anni dopo come i terrestri scomparsi e ritrovati in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Nessuno mostrava di registrare scomparse e rapimenti. Tutti, dopo ogni episodio di prelevamento, tiravano un sospiro di sollievo, ciascuno illudendosi che «la disgrazia toccata al parente o al vicino di casa vicino sarà risparmiata a me».
Miracolo è che, in questo mondo gestito da demoni e mostri implacabili, vi fossero persone disposte ad aiutare i deportati, i perseguitati, le vittime dell’autocrazia, come avveniva sotto gli zar, quando ancora il popolo conosceva la pietà. Osip e Nadežda Madel’štam ebbero anche qualche amico, tra cui il critico letterario Viktor Šklovskij, il giornalista Il’ja Ėrenburg e persino lo stesso Nikolaj Bucharin, già «pupillo di Lenin» e presidente del consiglio dei commissari del popolo prima di finire, insieme agli altri bolscevichi della vecchia guardia, nel tritacarne degli ex «tovarišči», che dopo Ottobre si cibavano esclusivamente di carne umana, come le streghe e i troll delle fiabe. Erano tempi terribili, ma si poteva ancora intitolare un tragico e terrificante memoriale alla speranza, come ha fatto Nadežda Madel’štam. C’è voluto Putin il Terribile, con la sua gelida maschera da sbirro, missili-mazzapicchio, «una marmaglia di mezz’uomini» al seguito, e la sua camminata da buttafuori, per cancellare definitivamente la parola speranza dal vocabolario russo.
Diego Gabutti