Il mito dell’apartheid e le elezioni israeliane 06/12/2022
Analisi di Michelle Mazel
Autore: Zvi Mazel/Michelle Mazel
Il mito dell’apartheid e le elezioni israeliane
Analisi di Michelle Mazel
(traduzione di Yehudit Weisz)
Una donna araba al voto durante le elezioni in Israele
Gli arabi israeliani hanno il diritto di voto. E’ un dato di fatto che i sostenitori del BDS come tutti coloro che accusano Israele di praticare l’apartheid citano di rado. Sono tanti quelli che credono che la situazione in Israele sia simile, se non peggiore di quel che accadeva negli anni più cupi del Sudafrica; che respingono in blocco gli argomenti più solidi che si riferiscono allo spazio sempre più grande che occupano gli arabi israeliani nei settori chiave del Paese; che si rifiutano di vedere che le barriere sono crollate già molto tempo fa: c’è stato un giudice arabo alla Corte Suprema di Israele, ci sono dei ministri arabi al governo, ci sono dei direttori di ospedali, dei dirigenti d’aziende, dei comandanti della polizia e dei generali. Gli arabi israeliani hanno ottenuto questo diritto di voto contemporaneamente a tutti i cittadini dello Stato ebraico e se ne sono avvalsi durante le prime elezioni nel 1949. Se la loro rappresentanza alla Knesset è inferiore alla loro percentuale nella popolazione, ciò è dovuto alle loro divisioni che fanno sì che certi partiti non riescono a raggiungere la soglia di sbarramento elettorale. Il sistema elettorale israeliano, istituito quando c’erano appena 500.000 elettori iscritti, è un sistema proporzionale plurinominale con liste bloccate in una sola circoscrizione nazionale. E’ rimasto uguale da allora anche oggi che ci sono sei milioni di elettori per 120 seggi e che la soglia di sbarramento elettorale che agli inizi era dell’1% è ora fissata al 3,5%, ossia 150.000 voti. Un partito che non superi questa soglia non avrà dunque rappresentanti al parlamento e i voti ottenuti saranno andati persi, a meno che il suddetto partito non abbia concluso un accordo di alleanza elettorale consentendo il trasferimento dei voti in un altro partito. Nelle ultime elezioni, tre dei partiti arabi che si disputavano il voto della loro comunità non sono riusciti ad aderire a una causa comune - come mobilitarsi per far fronte all’ascesa del sionismo religioso guidato da Itamar Ben Gvir e Betzalel Smotrich – e neppure a fare delle alleanze tecniche come in passato o a trovare a tutti i costi degli accordi di affinità con altri partiti. Centinaia di migliaia di voti sono andati perduti. Da qui nasce il paradosso: è stato il voto arabo che ha dato la vittoria al blocco della destra. A tale proposito il risultato delle elezioni non lascia alcuno spazio al dubbio. Ciò non significa che all’apertura dei seggi gli elettori arabi avessero questo solo obiettivo in vista, anche se non potevano ignorare tale eventualità. Nel caso delle precedenti elezioni, se il partito Yesh Atid è riuscito a formare il governo è stato grazie alla neutralità, se non alla complicità dei partiti arabi. Infatti, per tutta la campagna elettorale abbiamo sentito commentatori e uomini politici ripetere in coro che il voto arabo era il padrone del gioco, colui che avrebbe deciso quale sarebbe stata la natura del prossimo governo israeliano. E ciascuno di noi si lanciava in calcoli complessi: quale sarebbe l’impatto del tasso di partecipazione nella comunità araba israeliana, come la ripartizione dei seggi dei partiti di questa comunità giocherebbe in favore dei sostenitori del Primo Ministro del governo di transizione e capo del blocco per il cambiamento, Yair Lapid o del capo dell’opposizione, l’ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu che prometteva un governo al 100% a destra. L’uno e l’altro avevano elaborato delle fini strategie pur di raggiungere il proprio scopo. In ultima analisi, mentre il tasso di partecipazione globale a queste elezioni aveva superato il 70%, soltanto il 50% dei cittadini arabi era andato a votare.