'Il viaggio più lungo', di Oksana Zabužko 20/11/2022
Recensione di Diego Gabutti
Autore: Diego Gabutti
'Il viaggio più lungo', di Oksana Zabužko
Recensione di Diego Gabutti

Il viaggio più lungo, Oksana Zabuzko. Giulio Einaudi editore - Stile libero  Extra
Oksana Zabužko, Il viaggio più lungo, Einaudi 2022, pp. 128, 13,00 euro, eBook 8,99 euro.

In Ucraina, con le orde neosovietiche alle porte, è andata come nelle «pièce di Čechov», scrive Oksana Zabužko, scrittrice e romanziera ucraina, in questo suo diario di guerra, Il viaggio più lungo: «Se nel primo atto sulla scena c’è un fucile, significa che entro il quinto qualcuno sparerà. Se nel 2014 la Russia aveva pianificato degli attacchi aerei su Kiev, piú in là li avrebbe sicuramente realizzati, dopo essersi preparata meglio. Ed ecco che, finalmente, il fucile ha sparato».

Gli ucraini, crollato il Soviet supremo, s’erano illusi d’essere liberi per sempre (così come gli occidentali, quando l’Urss si dissolse, s’autoproclamarono vincitori della guerra fredda, benché «in realtà non avessero vinto proprio un bel niente»: la guerra fredda era stata «soltanto messa in pausa», come il televisore dopo il tg della notte).
Gl’indizi non mancavano. C’era stato il 2004, quando Viktor Fedorovyč Janukovyč – la Bocca di Putin come Vermilinguo, nel Signore degli Anelli, è la Bocca di Sauron – aveva truccato e vinto le elezioni, presto invalidate dalla Corte Suprema e dalla «rivoluzione arancione», che aveva occupato pacificamente la piazza Majdan di Kiev sventando la manovra del Cremlino. C’era poi stato il 2014, quando Janukovyč aveva di nuovo taroccato e vinto le elezioni e nuove manifestazioni di piazza lo avevano messo definitivamente in fuga, verso Mosca, dove aveva fatto la fine di tutte le teste di legno: i burattinai putiniani, terrificanti e trucidi come il Mangiafuoco di Pinocchio, lo avevano usato per alimentare il fuoco delle stufe e dei caminetti. («Anche quella primavera, già dopo la vittoria del Majdan», racconta Zabužko, «ero dovuta restare per un po’ all’estero: ero stata avvisata che un gruppo di sovversivi mi stava cercando»). Mangiafuoco, tuttavia, che per anni aveva ammassato armamenti e truppe d’assalto alle frontiere del paese, approfittò della confusione per invadere e annettersi la Crimea – dove «all’inizio degli anni novanta, dopo la fine apparente del sovietismo, «avevano cominciato a tornare i discendenti dei tatari deportati da Stalin» – senza che le democrazie dicessero anche soltanto «ba». Anzi, tutti gli allegri putiniani d’Occidente applaudirono e fecero festa, a cominciare da Silvio Berlusconi, il più inqualificabile dei populisti. Queste le avventure della libera repubblica ucraina prima del 24 febbraio 2022, quando al «quinto atto della pièce» il fucile di Čechov si è messo d’un tratto a sparare. Solo che non è un fucile ma sono carri armati, batterie missilistiche e un esercito invasore.

Nessuno sembra aspettarselo, tutti giù dal pero, benché i servizi segreti americani e inglesi l’abbiano annunciato da tempo e Putin, un bugiardo fatto e finito, lo neghi con forza, quindi il fatto sia certo. Come non è un fucile a sparare, ma sono missili e bombe a grappolo che piovono su case, scuole, ospedali mentre la canaglia russa dilaga nell’est del paese saccheggiando e stuprando, allo stesso modo questa non è una guerra all’Ucraina. È una guerra all’Occidente, come spiega Oksana Zabužko nel suo libro. Una guerra che si combatte anche all’interno dell’Occidente, buoni contro cattivi, «persone perbene» contro Silvio Berlusconi e i suoi semblables fasciocomunisti, contro Il Fatto quotidiano e La Verità, contro i 5stelle, contro La7, Rai3 e Rete4, contro gli ospiti rossobruni dei talk show. Due, le guerre di Putin: la prima, guerreggiata, ormai quasi perduta sul campo, e la seconda, una guerra segreta che sparge veleni ideologici in Occidente, trionfalmente vinta.

Questa particolare guerra – la guerra psicologica, di propaganda, asimmetrica, della Nuova Moscovia» («questo, forse, sarebbe il nome più adatto alla situazione storica di oggi», dice Zabužko) – «è continua, di massa e pervasiva. È una guerra che lo Stato russo, a prescindere dal nome che può avere assunto di volta in volta» – non importa chi lo governa: zar, commissari del popolo o presidenti eletti è lo stesso – «porta avanti contro il mondo civilizzato, essendo per sua natura un impero nomade che vive dell’appropriazione e del saccheggio di territori altrui e che tratta chiunque non riesce a sottomettere come un nemico e una potenziale preda. Lo scopo di questa sezione della macchina da guerra russa, quella che non si sporca di sangue ma che lavora sulla psiche, è d’“inculcare nell’avversario un’immagine del mondo tale per cui in caso di minaccia questo non sarebbe in grado di prendere decisioni adeguate alla difesa della propria sicurezza”. Il corsivo non è mio, è una citazione letterale da un manuale che usava il Kgb negli anni Sessanta e che è poi trapelato in Occidente negli anni Ottanta grazie al disertore Jurij Bezmenov. Le sue lezioni e le sue interviste sulla dottrina sovietica della “diversione ideologica”, cioè della conquista di un Paese “col metodo del judo”, indebolendolo dall’interno a spese delle sue risorse, sono un must read per chi voglia capire non solo Putin, che in quegli anni studiava proprio su quei manuali, ma anche la Russia nel suo complesso».

Oksana Zabužko oggi si trova all’estero, in Polonia, dov’è giunta il 23 febbraio, con un volo da Kiev, per un giro di presentazioni del suo ultimo libro, e da allora non è più rientrata in patria. Stavolta, scrive, «ho almeno un microfono in mano, e oggi non me lo spengono, com’era accaduto nel 2014, quando durante un incontro a Berlino, alla presenza d’importanti personalità, avevo paragonato Putin a Hitler, ma al contrario m’invitano a continuare a parlare». Tornerà a casa quando da noi i Luciano Canfora, gli Alessandro Orsini, i Giuseppe Conte, i Salvini e i gesuiti di scuola peronista rientreranno nell’ombra e un colpo di stato militare, una camarilla politica o un regicida avranno abbattuto Putin, sgombrando della sua presenza il mondo – senza che ciò, disgraziatamente, possa davvero modificare la natura dello Stato autocratico russo. Ma libera l’Ucraina, liberi anche noi. Almeno per un po’. Fino al prossimo giro, quando la Moscovia tenterà di nuovo il colpo.

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Diego Gabutti