'Anime', di Roy Chen 05/10/2022
Recensione di Giorgia Greco
Autore: Giorgia Greco
Anime            Roy Chen
Traduzione dall’ebraico di Shulim Vogelmann e Bianca Ambrosio
Giuntina            euro 19


“Forse è un diario, forse un romanzo, o forse è un testamento”

Anime - ROY CHEN - Libro - Mondadori Store

Negli ultimi anni si osserva un crescente interesse da parte del pubblico italiano nei confronti della letteratura israeliana: un entusiasmo che spinge molti lettori ad accostarsi a scrittori finora poco conosciuti in Italia. Le librerie italiane si vanno così popolando di romanzi e saggi che provengono da un paese, Israele, dove la letteratura è particolarmente fiorente. Ecco dunque spuntare sugli scaffali delle librerie accanto ai romanzi degli autori più famosi come David Grossman, Eli Amir, Amos Oz, A.B. Yehoshua, i nomi di Ayelet Gundar-Goshen, Assaf Gavron, Assaf Inbari e molti altri che rappresentano il volto della nuova narrativa israeliana.

Roy Chen con il suo folgorante romanzo “Anime” (Giuntina), arrivato in Italia come una meteora, è uno di loro. Nato a Tel Aviv nel 1980 è un autore innovativo, dalla biografia complessa e sorprendente che si riflette in una narrazione versatile e dalle mille sfaccettature: il ramo paterno della famiglia arrivò in Palestina nel 1492 a seguito dell’espulsione dalla Spagna, mentre quello materno giunse dal Marocco nel XX secolo. In gioventù, assecondando una personale rivolta identitaria, Roy Chen ha abbandonato la scuola dedicandosi da autodidatta allo studio della lingua russa e diventando negli anni traduttore di letteratura classica dal russo all’ebraico. Poco più che adolescente ha iniziato a lavorare in teatro e dal 2007 è drammaturgo stabile del Teatro Gesher, uno dei teatri più importanti di Israele.

Il romanzo di Roy Chen che Eshkol Nevo definisce “…. un viaggio sulle montagne russe fatto di emozioni forti e umorismo ebraico” è un’opera poliedrica che si muove fra epoche, situazioni e paesi assai diversi gli uni dagli altri rivelando la straordinaria capacità dell’autore di confrontarsi con differenti generi letterari: dalla prosa al linguaggio poetico, passando attraverso l’interpretazione teatrale.
Due sono i protagonisti del romanzo che, nell’arco di quattrocento anni, passano attraverso molteplici reincarnazioni vivendo così numerose esistenze. A raccontare la storia, rivolgendosi direttamente ai lettori e rendendoli partecipi dell’evolvere delle vicende, è Grisha durante la sua ultima incarnazione: un quarantenne senza un’occupazione che vive con la madre, non ebrea, immigrata dalla Russia in una casa modesta a Jaffa.

Tutto ha inizio nel XVII secolo a Chorbitza, un villaggio dell’est Europa, con una narrazione che richiama alla memoria i racconti della letteratura yiddish (impossibile non pensare ai fratelli Singer!) per poi proseguire nella Venezia del 1720 con le sue atmosfere magiche e misteriose. Si arriva a Fez in Marocco nel 1856 con pagine stupefacenti d’impronta drammaturgica, per finire a Dachau nella Germania del 1942 con un breve capitolo in cui, in poche righe, si ripercorre il dramma della Shoah: quest’ultimo, a parere di chi scrive, può risultare disorientante nella sua forza espressiva.

Si può credere a una vicenda simile? Secondo Marina, la madre di Grisha, che segretamente legge lo scritto del figlio e si inserisce nei suoi ricordi per raccontare la propria versione della storia, non è possibile prestare fede a quelle parole perché, riflette: “Di vita ce n’è una sola, tutto il resto è una metafora”.
Sullo sfondo di un racconto che oscilla fra situazioni drammatiche e momenti di bruciante ironia, serpeggia fra le righe un velo di incertezza che induce il lettore a interrogarsi sulla veridicità delle storie di Grisha e Marina, due personaggi complessi che ingaggiano, a colpi di parole sferzanti, una dura lotta per conquistare l’attenzione dei lettori e propiziarsene il favore, fino all’ultima pagina del libro.
Nella figura di Grisha, alla perenne ricerca di se stesso, e in quella della madre, sradicata dal suo paese natìo, si coglie quel senso di solitudine e smarrimento che alberga in ogni anima dinanzi al mistero insondabile della vita e della morte.
Con una struttura narrativa audace, capace di passare dalla suspense del romanzo storico alle atmosfere del surreale, dalle emozioni del memoir al ritmo folgorante del testo teatrale, “Anime” si impone come un’opera geniale, un’esperienza di lettura unica nel suo genere, perché Roy Chen “ha il talento di cogliere ogni aspetto affrontandolo da un’angolatura imprevedibile”.

Terminata la lettura di questo romanzo ricco di virtuosismi letterari non può mancare un plauso al lavoro eccezionale dei traduttori che, da veri artigiani della parola, hanno saputo rendere in modo magistrale un racconto che, oltre a riferimenti al Talmud e alla Bibbia, a espressioni in yiddish o in arabo, si muove fra varie ambientazioni temporali su piani stilistici diversi: dalle atmosfere rurali dello shtetl di Chorbitza nel XVII secolo ai vicoli di Fez nel Marocco della metà dell’Ottocento, dall’ebraico impacciato di Marina al linguaggio fulmineo del testo teatrale.

Infine, una breve riflessione sull’immagine di copertina, particolarmente calzante per il romanzo di Chen, che ritrae un ragazzo in un evidente atto di ribellione sottolineato anche dalla camicia aperta scivolata da un lato che, con sguardo atterrito e sgomento, tenta di uscire dal quadro. L’opera “Huyendo de la critica” (Fuga dalla critica) del pittore spagnolo Pere Borrell del Caso è un coraggioso balzo nel vuoto per sfuggire dalle costrizioni del conformismo, un’osservazione dell’altro da sé e verso di noi, in questo magnifico gioco di illusione/realtà.
Un’immagine potente che ci ricorda quanto sia fugace il confine fra vita e sogno, immaginazione e realtà.


Giorgia Greco