Il silenzio che urla
Gadiel Gaj Taché
Giuntina
A pochi giorni dal quarantesimo anniversario dell’attentato alla Sinagoga di Roma Gadiel Gaj Taché, fratello di Stefano che fu l’unica vittima, ci consegna un libro-verità con un racconto mozzafiato su un fatto di terrorismo che ferì il nostro Paese ma resta ancora avvolto in troppi interrogativi senza risposta. Nel volume Il silenzio che urla ,edito da Giuntina, 121 pagine di emozioni laceranti, fatti drammatici e domande spietate accompagnano i lettori, consentendo di rivivere da dentro, senza perifrasi, il più sanguinoso atto antiebraico avvenuto in Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il 9 ottobre 1982 «non era una giornata come tutte le altre», racconta Gadiel che allora aveva 4 anni, perché era la festa di Sheminì Azeret, il giorno di Sukkot nella quale in Sinagoga c’è la benedizione dei bambini. «Mia madre ci vestì uguali, con i pantaloni lunghi verdi, camicia verde e un maglioncino color senape». Avevano fatto tardi «quindi lasciammo il salotto di casa pieno di giocattoli per terra». Arrivarono in tempo per laberachà(la benedizione), Gadiel e Stefano incontrarono il padre che era già lì, si misero lekippot e i piccoli tallet indosso, e durante la funzione faticavano a stare fermi. «Specialmente Stefano correva da una parte all’altra del Tempio, per noi era un gioco bellissimo». In un giorno di gioia, con i genitori Josef e Daniela e in un luogo pieno di famiglie. Poi la funzione finisce, la famiglia Taché esce come tutti gli altri fedeli su via Catalana e il piccolo Stefano, 2 anni, incontra sulle scale Alba Anav — un’amica della madre — dicendole quelle che saranno le sue ultime parole: «Ciao bella mia tupidona». Usciti dal cancello nero su via Catalana, Gadiel, Stefano e genitori sostano a parlare con parenti ed amici — come avviene ogni sabato — ed alle 11.50 si scatena l’inferno. «I terroristi erano divisi in tre gruppi, i basisti, gli esecutori e il gruppo per la fuga — scrive l’autore, che ha raccolto e studiato tutto il materiale d’indagine finora accessibile — a lanciare le bombe sono quelli del secondo gruppo, posizionati sul marciapiede opposto a noi, le prime esplodono all’interno del giardino del Tempio, proprio alle nostre spalle». Quasi nessuno realizza cosa sta accadendo. Emanuele Pacifici, che rimarrà gravemente ferito, grida: «Ci tirano i sassi». Uno di questi “sassi” — che in realtà sono bombe — cade sulla testa della signora Taché, la ferisce ma miracolosamente non esplode. Le righe che seguono descrivono la morte di Stefano: «Restiamo a terra feriti, mamma colpita alle gambe delle schegge di altre bombe esplose cade a terra su Stefano, cercando di proteggerlo, ma Stefano è stato già colpito mortalmente alla testa. Papà mi tiene per mano, sono davanti a lui quando una bombaesplode proprio vicino a noi, investendomi ». Il tutto dura pochi secondi, gli attentatori si allontanano sparando all’indietro, corrono verso via Arenula dove li aspetta il terzo gruppo, incaricato della fuga. Sul selciato restano circa quaranta feriti, con i corpi bersagliati dalle schegge, coperti dal sangue.
Il piccolo Stefano, 2 anni di età, viene portato al Fatebenefratelli, dove ne accertano la morte. «Io fui fortunato, anzi miracolato — scrive l’autore — perché le schegge mi investirono in pieno, colpendomi ovunque, ero in condizioni disperate ». Gadiel sopravvive e, come altri sopravvissuti alle tragedie del popolo ebraico, si chiede: «Perché Stefano fu sacrificato ed io no? Perché?». I dottori temono per la vita di Gadiel, credono possa perdere un occhio, viene operato a ripetizione e infine riescono a salvarlo con un’opera, umana e scientifica, che strappò alla morte anche Emanuele Pacifici, arrivato all’obitorio con un lenzuolo sul volto fino a quando il rabbino Elio Toaff non vide un respiro e gridò con tutta la voce che aveva «è ancora vivo!». Al Fatebenefratelli, sull’isola Tiberina, resta la madre di Stefano e Gadiel, anch’essa ferita: apprende di quanto era avvenuto inmaniera brutale. È una suora che entra nella corsia dove era ricoverata e chiede ad alta voce: «Qual è la madre del bambino morto?». Daniela vede dalla sua finestra d’ospedale uscire la piccola bara bianca di Stefano il giorno del funerale davanti alla Sinagoga. I medici devono trattenerla, temono si butti di sotto. È questo il momento da cui nasce il titolo. Il silenzio che urlaè l’atmosfera che accoglie la piccola bara bianca, portata a spalla dai rabbini, passando attraverso un tappeto umano ferito e carico di rabbia per l’attentato subito in un clima di odio contro Israele e gli ebrei che in quell’estate-autunno 1982 teneva banco in Italia a seguito della guerra in Libano. Fu Toaff a chiedere al capo dello Stato Pertini di non venire al funerale, per non urtare i sentimenti di una comunità che non aveva compreso la sua scelta di accogliere Yasser Arafat al Quirinale in un momento in cui l’Olp ancora perseguiva la distruzione di Israele. E così quel “silenzio che urla” venne rotto solo dal suono dello Shofar , il corno rituale, interpretando un dolore lacerante, profondo che dura ancora fino ad oggi.
Come attuali sono gli interrogativi sulla dinamica dell’attentato che il libro elenca, citando documenti ufficiali e rapporti investigativi. Perché quel sabato 9 ottobre non c’era la sorveglianza davanti alla Sinagoga come avveniva ogni giorno? Perché non venne inviata sebbene la presidente dell’Unione delle Comunità Tullia Zevi l’avesse esplicitamente chiesta? Perché il ministro degli Interni Rognoni negò in Parlamento di aver ricevuto la richiesta di Tullia Zevi? Perché vi fu fretta nell’attribuire l’attentato ai palestinesi del gruppo Abu Nidal se un rapporto del Sisde del 28 novembre 1982 affermò che Osama al Zomar, l’unico attentatore catturato anche se poi fuggirà in Libia, aveva ricevuto l’incarico dell’attentato dall’Olp? Perché l’Italia non chiese alla Libia di Gheddafi la consegna di Al Zomar? E perché non si sono mai cercati gli altri membri del commando che, secondo molte testimonianze, non erano solo arabi ma avevano anche la pelle bianca e sembravano europei? Perché la pista delle mitragliette simili, usate a Roma e anche nell’attentato a Parigi del 1981, non è stata seguita? Sono interrogativi che meritano di avere delle risposte e il libro di Taché li rilancia con forza. Dopo aver reso omaggio ai presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella per il ruolo avuto nel far inserire il 9 ottobre 1982 nel calendario delle vittime del terrorismo in Italia. Il resto è nelle ultime pagine, dove Taché pubblica foto inedite del fratellino assassinato dai terroristi e del suo ritorno a casa, in carrozzella e con un occhio bendato. Nel giorno della riconquista della vita che lo porta oggi a chiedere giustizia.
Da La Repubblica