Perchè non bisogna tacere davanti a Saddam Hussein
Mel Sembler e Giuliano Ferrara spiegano quanto possa essere pericoloso nascondersi dietro falsi pacifismi e far fininta di non vedere quanto pericoloso sia l' Irak di Saddam
Testata: Corriere della Sera
Data: 11/02/2003
Pagina: 1
Autore: Mel Sembler
Titolo: Il '38, Hitler ripensateci
Riportiamo due articoli pubblicati sul Corriere della Sera martedì 11 febbraio 2003.
Il primo, di Mel Sembler, ambasciatore Usa in italia, intitolato, "Il '38, Hitler ripensateci" ed il secondo, di Giuliano Ferrara, direttore del Foglio, intitolato: "Solo difesa legittima"

IL ’38, HITLER RIPENSATECI

di MEL SEMBLER*


Caro direttore, il 26 settembre 1938 Adolf Hitler assicurava il mondo che dopo l'annessione dei Sudeti «la Germania non avrebbe più posto problemi territoriali in Europa», e dava al premier inglese Neville Chamberlain la sua «garanzia» personale. Hitler aveva fatto questo discorso davanti ad una grande folla riunitasi al Palazzo dello sport di Berlino, ma il mondo ricorda di più l'immagine di Chamberlain con in mano un pezzo di carta che pronunciava le parole «pace ai nostri giorni».
Sappiamo tutti quello che è successo meno di un anno dopo, e perché. Hitler si è fatto beffa dei tentativi europei di contenimento nei suoi confronti. I suoi panzer sono entrati in Polonia perché la comunità internazionale non li ha fermati in Cecoslovacchia. In assenza di risolutezza da parte della comunità internazionale, niente poteva fermarlo. Nel 1938 la Società delle Nazioni aveva smesso di essere una forza credibile. Era stata resa impotente perché non aveva impedito a Mussolini di invadere l'Abissinia nel 1936. Nel 1945, il mondo aveva appreso la lezione: gli sforzi per fermare i dittatori devono essere sostenuti da una minaccia credibile di usare la forza. E così venne conferita al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a differenza di quanto era avvenuto per la Società delle Nazioni, l'autorità di contrastare le minacce alla pace e al la stabilità mondiale autorizzando l'uso della forza. Lo ha fatto molte volte, anche nel 1991 per costringere l'Iraq, tra l'altro, a ritirarsi dal Kuwait e deporre le armi di distruzione di massa. Siamo stati in grado di ottenere il primo risultato dopo aver minacciato e fatto ricorso alla forza. Nessuno può credere veramente di poter ottenere l'altro risultato, di riuscire cioè a far disarmare Saddam Hussein, senza la minaccia dell'uso della forza militare. Il direttore de Bortoli ha scritto sulle pagine di questo quotidiano di essere contrario alla guerra preventiva contro Saddam Hussein in parte perché si chiede se non si rischia di «lasciare ai nostri figli l'eredità... di una guerra continua». Ha sollevato questi ed altri interrogativi profondi su questioni cruciali che ci riguardano tutti. Ma credo che oggi dovremmo chiederci, come avrebbero dovuto farlo i nostri genitori e i nostri nonni nel 1938, se vogliamo lasciare ai nostri figli l'eredità di un mondo in cui i dittatori possono farsi beffa della comunità internazionale. Dovremmo lasciare loro un mondo in cui le decisioni delle Nazioni Unite non significano nulla? I nostri figli meritano forse di ereditare un mondo in cui la messa a punto di armamenti chimici e batteriologici non produce conseguenze? E se, Dio non voglia, tra un anno o tra dieci anni, i nostri figli saranno vittime di un attacco chimico o batteriologico, cosa penseranno dei loro genitori che hanno visto il pericolo con chiarezza e non hanno agito per prevenirlo? Il dittatore iracheno ha scelto di non rispettare un'altra risoluzione del Consiglio di Sicurezza e di non collaborare al suo disarmo. Ora, i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza devono scegliere. L'8 novembre, quando ha chiesto il disarmo immediato dell'Iraq, il Consiglio di Sicurezza ha parlato all'unanimità e con chiarezza. Deve ora mostrare se le sue parole hanno un significato. Avendo posto queste richieste, il Consiglio di Sicurezza non deve recedere. Questo non ha niente a che vedere con l'unilateralismo degli Stati Uniti, come qualcuno ha accennato. Insistiamo: le risoluzioni dell'Onu devono essere rispettate. Non stiamo cercando di indebolire le istituzioni internazionali. Applicare i termini delle risoluzioni rafforzerà l'autorevolezza e la credibilità dell'Onu. L'11 settembre del 2001 il popolo americano ha visto cosa potevano fare i terroristi trasformando degli aerei civili in mezzi di offesa. Sappiamo che Saddam Hussein ha delle armi ancora più' terribili. E sappiamo che ha legami antichi, diretti e continui con i terroristi. Edmund Burke, il grande statista del XVIII secolo, disse una volta: «L'unica cosa necessaria per il trionfo del male è l'inerzia dei buoni». Avremmo dovuto ricordare queste parole nel 1938. Ricordiamole ora.
SOLO DIFESA E LEGITTIMA

di GIULIANO FERRARA*


Caro direttore, domenica scorsa per il giornalismo italiano è stato un classico dies aureo signanda lapillo, una giornata da iscrivere in lettere d'oro. Hai riflettuto, hai argomentato con pacata fermezza, e hai preso una posizione impegnativa per il tuo giornale. Il che non equivale, come ha dimostrato il giorno successivo l'editoriale di Ernesto Galli della Loggia, avvolgere il più autorevole quotidiano italiano in una bandiera di propaganda pacifista.
Sai che da tempo mi batto perché il giornalismo si assuma esplicite responsabilità, senza desistere dalla sua natura di mestiere fatto per complicare le cose e invitare a pensare nel contraddittorio. Per questo ti ho letto con gioia intellettuale, pur avendo idee opposte alle tue sul modo di ottenere il disarmo di Saddam Hussein.
Permettimi adesso di introdurre un altro argomento, e diverso dai soliti, in favore dei preparativi di guerra nel Golfo, e della lunga campagna di chiarificazione in cui si sono impegnate, con aspre divisioni, le democrazie occidentali. E' un argomento brusco e semplificatore, ma credo abbia una sua verità.
Tutti sanno, infatti, che l'obiettivo di deporre con la forza il dittatore di Baghdad non ha soltanto il risvolto esplicito universalmente conosciuto, quello di diminuire un rischio strategico legato all'offensiva terroristica e alla detenzione di armi di distruzione di massa da parte del regime iracheno. C'è un altro aspetto della questione, restato implicito, che va messo in luce.
I civili morti ammazzati dal terrorismo islamista sono americani ed ebrei. La grande paura generata dall'offensiva degli shahid ci riguarda fino a un certo punto. Il loro obiettivo di destabilizzazione è imperniato sull'attacco allo Stato di Israele, e al suo diritto di esistere, e agli Stati Uniti d'America, feriti per la prima volta sul loro suolo nazionale, e nelle forme tragiche che conosciamo, l'11 settembre. Le armi chimiche, batteriologiche e radiologiche non sono politicamente e militarmente puntate sulle nostre città, ma su Gerusalemme e New York. Noi europei non siamo direttamente nel mirino di Bin Laden e per adesso, a parte gli allarmi e i rischi sempre dietro l'angolo, siamo fuori dalla partita.
Su questo dato di fatto bisogna ragionare freddamente, se si vuole capire il perché dell'aspra divisione che attraversa l'Occidente.
Questa è una guerra angloamericana e israeliana, una sfida al «male» portata da ebrei e da cristiani individuati e combattuti come «nuovi crociati». Questa non è e non sarà mai, comunque, la guerra dei cristiano-cattolici o degli evangelici pacificati dell'Europa continentale. E' ad Amburgo, a Milano, a Parigi e in Belgio che sono più attive le cellule della rete terrorista, è nelle nostre città che sono stati preparati i voli assassini che hanno colpito le Torri di Manhattan e il Pentagono. E siamo noi che sosteniamo finanziariamente l'Autorità palestinese, in nome di sacri principi di autodeterminazione dei popoli che la leadership dell'Olp ha svenduto e tradito sull'altare dell'Intifada Al Aqsa e del sistematico bombardamento di pizzerie, alberghi, bus nella Cisgiordania occupata e nel territorio di Israele.
Sostengo che la durezza fino ad ora rivelatasi incomponibile della scissione degli interessi e delle coscienze, che mette a rischio antiche alleanze, dipende da questo. Chi si mette di traverso al build up americano, sostenuto nel segreto diplomatico dall'intelligence israeliana e nel solare risultato elettorale dall'opinione pubblica israeliana, finisce per essere percepito, anche se non lo voglia, come qualcuno che nega il diritto di legittima difesa alle vittime dell'11 settembre e della campagna di terrorismo che ha devastato Israele. Invocare la legalità internazionale è già di per sé molto complicato, visto che l'Onu non è un tribunale né un supergoverno ma un luogo di mediazione e di dialogo in cui alla fine quel che decide è la volontà politica dei membri del Consiglio di sicurezza. Ma invocarla come un freno alle ambizioni espansionistiche e petrolifere di Israele e dell'Amministrazione Bush suona come un'offesa sanguinosa a governi e popoli decisi a costruire un ordine in cui non ci sia posto per l'aggressione terrorista e per le altre minacce strategiche alla pace. Minacce che, e su questo concordo con te, sono destinate a durare anni e ad essere combattute per anni.
Molti Paesi europei hanno deciso di dare una mano agli ebrei e agli americani in questa offensiva contro la minaccia che pende sulle loro teste, cercando di rendere irrespirabile l'aria di Bagdad e dei palazzi presidenziali in cui abita Saddam Hussein, e preparandosi per il peggiore scenario se dalla pressione militare non sortirà l'effetto desiderato. Altri negoziano, altri riluttano. Pesa l'eredità gollista in Francia, sia pure nella caricatura (come ha scritto Thomas Friedman) che ne fa Jacques Chirac. Pesa la sconfitta strategica della Spd tedesca, che ha assistito da spettatrice alla caduta del muro di Berlino e alla riunificazione del Paese, ad opera di Helmut Kohl e di Ronald Reagan, dopo aver giocato per anni, d'intesa con il Vaticano pre-Wojtyla, la carta truccata dell' appeasement , dell'Ostpolitik.
Non pretendo di avere ragione in assoluto, e capisco l'importanza di un faticoso tentativo di ricostruire un minimo di unità in Europa, rispettando le obiezioni di coscienza del popolo pacifista, ma sono certo che la costruzione di un certo grado di autonomia dell'iniziativa europea deve fare i conti con questo dato basilare, non soltanto psicologico ma schiettamente politico: l'11 settembre non è stata bombardata Parigi, né Berlino, e le nostre pizzerie, discoteche, alberghi, i nostri bus per i bambini che vanno a scuola sono luoghi relativamente sicuri. Per questo la divisione occidentale oggi ha anche un sapore morale, oltre che un chiaro profilo politico.
Invitiamo i lettori di informazionecorretta.com ad inviare il proprio plauso alla redazione del Corriere della Sera. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.


lettere@corriere.it