Succede in Egitto
Tra i Protocolli dei Savi di Sion su tutte le reti TV e l'antisemitismo montante ecco un bel reportage su un paese che con Israele ha fatto la pace
Testata:
Data: 06/02/2003
Pagina: 3
Autore: Ibrahim Refat
Titolo: Tra la svalutazione e le soap opera antisemite Mubarak è costretto a proteggere Saddam
Riportiamo un articolo di Ibrahim Refat pubblicato su il Riformista giovedì 6 febbraio 2003.
Il Cairo. L'estate dell'altro rais si preannuncia tempestosa. In 22 anni di dominio assoluto sull'Egitto, Hosni Mubarak non ha mai affrontato una fase più burrascosa di quella attuale: una guerra alle porte di casa, l'economia a pezzi, un malcontento popolare serpeggiante, la minaccia di una ripresa del terrorismo, una politica estera poco incisiva e continui attriti con gli Usa. Paragoni con altre crisi, come quella della prima guerra del Golfo, non reggono. Il regime egiziano fu allora alla guida della coalizione araba, alleata compatta dell'America; l'unità, ora, è solo un ricordo lontano. Del resto, stavolta Mubarak ha dovuto adottare una linea ambivalente, rivolgendosi ora agli Stati Uniti, ora all'Iraq.
Il rais considera Saddam una fonte di instabilità permanente: lo afferma in ogni incontro con gli ospiti stranieri e lo ribadisce ogni giorno la stampa locale, tutta controllata dal regime. Ma, siccome l'invasione dell'Iraq rischia di gettare nel caos l'intera regione, Mubarak ritiene utile rinviare la resa dei conti con Baghdad. Caso mai, propone di logorare Saddam per farlo poi crollare dall'interno. Ma se lo scontro fosse inevitabile, il rais vorrebbe un intervento limitato, magari con un rapido ricambio al vertice a Baghdad, eliminando il capo e lasciando tutto il resto invariato, cioè in mano agli uomini del Baas. Niente amministrazione militare, niente tutela americana. Un azzardo? No, perché sconvolgendo gli equilibri dell'Iraq, si darebbe il via alle temute rivendicazioni etniche, eccitando così gli appetiti di Turchia e Iran. Ma anche perché c'è il serio rischio che tentativi di emulazione di tutele americane si diffondano in tutto l'area. E i poteri locali vanno conservati. L'offerta di ospitalità a Saddam in riva al Nilo, nei calcoli dell'Egitto rientra in questa ottica, che mira a una soluzione indolore alla crisi. Ma il no del dittatore ha per ora ridotto le chance della strategia egiziana.
Mubarak è quindi costretto a barcamenarsi, senza prendere posizione ufficiale contro l'intervento, ma nemmeno a favore. È un ruolo logorante, anche perché l'Egitto ha margini di manovra assai ristretti: il pericolo della perdita degli aiuti finanziari di Washington è sempre incombente. Mubarak deve quindi assecondare la volontà degli Usa. Nel contempo, però, non può soprassedere sui legami col resto del mondo arabo e gli umori dell'opinione pubblica, ostile agli Usa. Pena il logoramento del suo potere. Mubarak, costretto a giocare di rimessa, si limita a lanciare moniti a Saddam. Ma, nello stesso tempo, è allarmato per le conseguenze di un intervento unilaterale. Tanto che ha spedito in fretta a Washington un messaggio sull'impatto del conflitto sull'economia regionale - 60 miliardi di dollari, di cui 8 solo per l'Egitto - e chiedendo delle contropartite, almeno per impedire il crollo del fronte arabo moderato. Soldi che servono anche per il fronte interno. Ai fondamentalisti, Mubarak ha comunque fatto sapere che non tollererà la strumentalizzazione della crisi irachena. E il suo ministro dell'Interno, El-Adly, minaccia addirittura di ricorrere al pugno di ferro. Un linguaggio assolutamente nuovo per l'Egitto.
Il guaio è che la rabbia popolare è stata rinfocolata dal rincaro dei prezzi seguito alla svalutazione del 20% della lira egiziana, una misura adottata proprio in previsione del conflitto. Per il paese le ripercussioni sui prezzi sono state repentine, con aumenti medi del 20%, cioè pari alla perdita del potere d'acquisto del pound. Un prezzo salato per l'Egitto, dove un abitante su due vive nella povertà. Lo scenario economico, comunque, viene utilizzato anche come deterrente per scoraggiare qualsiasi solidarietà con l'Iraq: «L'Egitto non può permettersi il lusso di lanciarsi in avventure perdenti», ha detto Mubarak, invitando parallelamente la stampa egiziana a moderare i toni della polemica con gli Usa. Invito sagace ma tardivo. Il cuore degli egiziani, di fatto, batte per Saddam e non ascolta gli inviti alla ragione di Mubarak. La causa del vuoto che separa il potere dal popolo risiede proprio nel fatto che i media hanno incitato per anni all'odio anti-occidentale. Ogni altra voce di dissenso è rimasta fuori. Il potere, cinico, assisteva in silenzio, credendo di poter distogliere l'attenzione dai problemi interni. È stato un errore fatale. Nel tentativo di denigrare con ogni mezzo Israele, i media egiziani hanno fatto ricorso a dosi massicce di anti-semitismo e pro-islamismo. La riprova arriva dallo sceneggiato televisivo anti-ebraico apparso sulla tv di Stato durante il Ramadan sui «falsi protocolli di Zion». Con il risultato di provocare una protesta corale in seno al Congresso Usa, organo al quale spetta vegliare sul flusso degli aiuti all'Egitto, circa due miliardi di dollari l'anno. Da qui l'intervento del potente consigliere politico del rais, Usama el-Baz, che - con un articolo pubblicato dagli organi di stampa locali, ma rivolto a Washington - ha cercato di arginare l'ondata di anti-semitismo. Un intervento comunque tardivo; il solco fra il Cairo e Washington sta aumentando.
Anche le cure proposte da ambo le parti per rimediare ai danni dell'11 settembre sono divergenti. Secondo Bush, il fondamentalismo islamico attecchisce in Medio Oriente a causa della mancanza di democrazia. Una situazione che gli Usa intendono contrastare con un'apposita strategia, come conferma il piano per la democrazia in Medio Oriente lanciato da Powell. E uno dei bersagli diretti di questa nuova offensiva è proprio l'Egitto. Per ora, Washington si limita ai consigli. Sollecitato a dare prova di sensibilità, l'Egitto ha però ricominciato a rivedere alcuni punti della sua politica estera e interna. Sul primo versante ci sono stati già dei piccoli mutamenti. Verso Sharon, l'Egitto si mostra più disponibile, tanto da averlo invitato al Cairo. Inoltre, Mubarak sta incoraggiando le fazioni palestinesi a stipulare una tregua con Israele. Sul fronte interno, invece, la scarcerazione del sociologo Saad Eddin Ibrahim - un americano d'origine egiziana paladino dei diritti umani - è stata accolta come un segnale sulla volontà di voltare pagina. Washington considerava indispensabile la sua liberazione, pena la decurtazione degli aiuti. A questa mossa è seguita la nomina di una donna, per la prima volta nella storia dell'Egitto, a giudice costituzionale. Infine, c'è stata la decisione di inserire, nel calendario delle feste nazionali, la festa del Natale della minoranza copto-cristiana.
Sono tutti segnali di una timida apertura alle istanze Usa. Il problema è che la guerra in Iraq è destinata a distogliere l'attenzione dalla necessità di liberalizzare la società araba. In un mondo nutrito dalla contrapposizione all'Occidente, le vittime irachene, oltre a fomentare l'odio degli islamici, scoraggeranno l'insieme dei paesi arabi ad aprirsi verso le forze del progresso e della modernità.
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