'Se solo il mio cuore fosse pietra', di Titti Marrone 15/06/2022
Recensione di Giorgia Greco
Autore: Giorgia Greco
Se solo il mio cuore fosse pietra
Titti Marrone
Feltrinelli                   
Euro 17,50

“A volte vorrei avere il cuore di pietra per non essere sopraffatta dal loro dolore”

Se solo il mio cuore fosse pietra - Titti Marrone - Libro - Feltrinelli - I  narratori | IBS

Il romanzo di Titti Marrone, giornalista e scrittrice di talento, è uno di quei libri che non lasciano indifferenti. Si termina la lettura di “Se solo il mio cuore fosse pietra” (Feltrinelli) con un miscuglio di emozioni contrastanti, strazio, gioia, sgomento, incredulità, sollievo, gratitudine e con la consapevolezza di avere fra le mani un’opera preziosa che, seppur romanzata, racconta una storia vera.

E’ una vicenda finora poco conosciuta quella dei venticinque bambini ebrei sopravvissuti ai lager, nascosti negli orfanotrofi o in soffitte che nel 1945 furono accolti in una grande casa di campagna a Lingfield nel Surrey, alla periferia di Londra nella dimora che Sir Benjamin Drage, facoltoso ebreo inglese, mise a disposizione dei piccoli traumatizzati dalle atroci esperienze vissute durante la guerra. A occuparsi del loro recupero nel tentativo di restituirli a un’infanzia perduta e alla fiducia negli adulti venne chiamata Alice Goldberger, terapeuta che già a Berlino aveva collaborato con Anna Freud e che, insieme alle educatrici Maureen Wofison, Gertrud Dann, Sophie Husher, già con esperienze di lavoro a Windermere, il centro di prima accoglienza per i minori reduci dai vari lager, diede vita a un progetto di “reinserimento nella vita” mai tentato prima, avvalendosi delle più aggiornate conoscenze di psicologia infantile e pedagogia. Il compito che si assunse Alice si rivelò arduo fin dall’arrivo del primo gruppo di bambini che, dopo la drammatica esperienza a Terezín dove avevano visto “più persone morte che persone vive”, reagirono con spavento e strilli alla vista di quei bambini rosei e sorridenti che Alice aveva invitato per accoglierli in modo festoso.

Sin dai primi giorni Alice e le sue collaboratrici si confrontano con il rifiuto dei bambini di farsi la doccia, memori di cosa accadeva nel lager, di nutrirsi con cibi solidi, abituati alla brodaglia del campo, atterriti al rumore di stivali, per il latrato di un cane, oppure per il passaggio di un camion lungo la strada. Temono di essere avvelenati col cibo e che la meravigliosa villa di Lingfield sia solo un terribile inganno ordito dagli adulti.
E’ dunque la fiducia nella vita, preludio per guardare al futuro con speranza, che va ricostruita con pazienza e dedizione, senza lasciarsi scoraggiare dalle manifestazioni di rifiuto o aggressività, dalle manie o fobie che abitano quelle anime traumatizzate. Occorrerà tempo prima che Gadi smetta di nascondere il pane, Ervin di fare scherzi crudeli ai compagni, Jack di mettere soldatini fuori dalla camera per impedire il ritorno dei nazisti, Zdenka di parlare con una spilla che ha conservato gelosamente sin dal campo di Terezín, Tania di mangiare i fiori per sentirne il dolce sapore.

Ogni bambino, che ha dimenticato il linguaggio dell’amore e si è costruito una corazza psicologica, ha vissuto esperienze diverse, è una realtà a se stante nella quale Alice e le altre terapeute devono entrare in punta di piedi, consapevoli che l’inquietudine che li abita e la diffidenza verso il mondo degli adulti, colpevole di averli traditi, richiederanni molta pazienza e amore per essere superate. ”Vita, morte, nascite, uccisioni e ancora violenze, sopraffazioni, privazioni. Quanto poteva sopportare la mente di un bambino?” si chiede Alice Goldberger.

Oltre ad accogliere, curare e sfamare, oltre a inserire i più piccoli nelle scuole, ad insegnare la lingua inglese per avere un idioma comune, c’è un compito ancor più complesso che attende Alice, un percorso per aiutarli a ricordare, penetrando con delicatezza, senza forzarne l’interiorità ferita, nel segreto della loro memoria tanto vulnerata. “Lei sapeva bene che rammentare è come rammendare, cucire gli strappi, inclusi quelli interiori. Ripararli sapendo che i segni sarebbero restati comunque indelebili e visibili”.

Insieme ai bambini arrivati da Auschwitz come le sorelle Bucci, le sorelle Traub e Julius Hamburger, ve ne sono altri che si sono salvati nascosti in conventi, orfanotrofi o in luoghi angusti, soffitte o cantine e per questi ultimi, ci ricorda l’autrice, l’esperienza di segregazione non è stata meno drammatica di quella vissuta da chi è stato deportato nei lager. Con il cuore gonfio d’angoscia leggiamo il racconto di quanto è accaduto a Judith Stern e alla sorella Mirjam, a Evin Bogner e a Charles Kessler per i quali, al dolore della perdita dei familiari, si aggiungeva il timore di essere scoperti, costretti a vivere in nascondigli insalubri e angusti per lunghi mesi, senza parlare con nessuno.

Dai colloqui con Tatiana Bucci, la sorella maggiore di Andra, Alice viene a conoscenza di molti particolari sulla capacità delle bimbe di sopravvivere nel lager, sui rapporti con la Blockova, più volte disegnata da Andra, che era rimasta impressa anche nella mente della sorella maggiore come un ricordo positivo, una persona che aveva avuto un ruolo importante nella loro sopravvivenza. Dai ricordi di Tatiana, come un filo che si sbroglia da una matassa, emerge anche l’identità di un terzo bambino Sergio De Simone, il cuginetto deportato nel lager che fu vittima degli esperimenti medici dei nazisti e non arrivò mai a Lingfield.

La penna di Titti Marrone segue con rispetto e sensibilità lo sviluppo fisico e intellettuale dei venticinque bambini tratteggiando un percorso costellato da momenti di gioia come il ricongiungimento con i genitori di Andra e Tatiana Bucci ma anche di sofferenza come la mancata adozione per le sorelle Traub, o il rifiuto della madre biologica di riprendere il figlio, Samuel Schwartz, che avrà risvolti ancor più drammatici negli anni successivi.

L’autrice osserva con rispetto i bambini che vivono una quotidianità scandita dalle attività pedagogiche e didattiche proposte dalle educatrici, dai corsi di giardinaggio o pianoforte, alla cura degli animali raccontando del loro difficile percorso verso l’età adulta e di come i traumi e le sofferenze subite abbiano lasciato per alcuni tracce permanenti che hanno impedito di costruirsi una vita normale. E’ il caso di Mirjam che cadrà nel gorgo delle droghe, di Julius che si rivelerà incapace di trovare un proprio equilibrio anche una volta arrivato in Israele o di Martha destinata a continue cure psichiatriche che non confiderà mai a nessuno di essere una sopravvissuta al lager di Terezín.

Per alcuni bambini il progetto delle adozioni nel quale Alice e Anna Freud credettero fermamente si risolverà in un fallimento, in parte per la difficoltà di quelle creature traumatizzate ad adattarsi a un ambiente diverso da Lingfield e a inserirsi in una nuova famiglia, in parte per l’inadeguatezza degli aspiranti genitori, incapaci di accogliere, insieme al bimbo, il dolore che si portava dentro.
Per la maggior parte di loro però le cure, le attenzioni e l’affetto ricevuti nella dimora di Lingfield aprono la strada a un futuro costellato da successi professionali, da matrimoni e dall’arrivo di figli ai quali tuttavia saranno quasi sempre taciute le esperienze vissute durante la guerra.

Per ricostruire la storia dei venticinque bambini di Lingfield, l’autrice ha aperto archivi, incrociato documenti, consultato fra gli altri le opere di Anna Freud, il saggio di Sarah Moskovitz, un’accurata raccolta delle testimonianze di ventiquattro degli ex bambini fornite da adulti, gli Alice Goldberg Papers, carteggi, album fotografici, poesie, lettere e disegni dei bambini, ma la prima tessera di mosaico delle fonti esaminate per narrare questa vicenda è stata la testimonianza delle sorelle Bucci figure centrali, insieme al cuginetto Sergio, del suo saggio “Meglio non sapere” (Laterza, 2003). Recentemente è uscito per Mondadori il libro “Noi, bambine ad Auschwitz” in cui Andra e Tatiana raccontano il percorso che hanno intrapreso per tornare alla vita dopo l’esperienza del lager. “Se solo il mio cuore fosse pietra”, titolo che riprende una citazione del capolavoro “La strada” di Cormac McCarthy, si apre con l’immagine di un bambino che appare in sogno ad Alice, il piccolo Sergio De Simone di otto anni, l’unico bimbo italiano sottoposto a sperimentazioni in un lager, che non arrivò mai a Lingfield e si chiude con una pagina struggente dedicata a lui: una figura che accompagna con la forza della sua assenza e il dolore di una mancanza senza giustificazioni il ritorno alla vita di altri bambini che furono più fortunati.

Questo libro, che accende la memoria su un pezzo di Storia dimenticato, vuol essere un omaggio a Sergio e a tutti quei bambini che furono privati di una speranza perché come scrive Titti Marrone nell’ultima pagina: “La sua è la voce di un passato che devastò l’infanzia di moltissimi bambini, di una barbarie contro gli esseri umani più indifesi che si ripresenta di continuo ma oggi rischia di perdere parola. Di finire soffocata dal suono balordo emesso dall’insensatezza del nostro vivere quotidiano”.


Giorgia Greco