'Canaglia', di Itamar Orlev 17/05/2022
Recensione di Giorgia Greco
Autore: Giorgia Greco
Canaglia
Itamar Orlev
Traduzione di Silvia Pin
Giuntina euro 19

Canaglia - Itamar Orlev - Libro - Giuntina - Israeliana | IBS

Vincitore del Premio Sapir in Israele e del Prix du Meilleur Roman des lecteurs Points in Francia, “Canaglia” è il primo romanzo pubblicato in Italia dello scrittore israeliano Itamar Orlev, nella brillante traduzione di Silvia Pin. Nato a Gerusalemme nel 1975, Orlev, figlio dello scrittore Uri Orlev sopravvissuto alla Shoah, ha pubblicato racconti in riviste israeliane come Moznaim, Massmerim e Mitaam, ha vinto il primo premio come sceneggiatore di un’opera teatrale al Beit Lessin Open Stage Festival, si occupa di editoria e attualmente vive a Berlino con la moglie e i due figli. Con “Canaglia” l’autore mette in scena un racconto pervaso di umanità e lieve ironia, sul significato del perdono, sulla violenza che si scatena nelle famiglie disfunzionali e sulla necessità di penetrare i delicati equilibri tra le generazioni.

La lettura di questo libro è un continuo “stop and go” perché l’intensità delle emozioni che suscita, dalla commozione al disgusto, dalla pietà alla rabbia, è tale da richiedere un certo tempo di “sedimentazione” prima di immergersi in una nuova pagina o in un altro capitolo. Siamo nel 1988 quando il protagonista, Tadek, uno scrittore che sta cercando la sua strada, viene abbandonato dalla moglie la cui mancanza insieme a quella del figlio di pochi anni lascia uno spazio vuoto che si “riempie di un dolore inaspettato e di un’immensa angoscia”. In questo stato d’animo Tadek decide di recarsi in Polonia per incontrare il padre Stefan, un polacco violento e brutale, con il quale non ha più contatti da quando la madre si è trasferita in Israele con i figli per sfuggire dalla povertà della Polonia socialista e per allontanare i bambini da un clima familiare pervaso di violenza. “Non pensavo a lui da così tanto tempo che perfino la parola stessa, papà, suonava estranea. La sua presenza assente si era ridotta a una sorta di rumore di fondo monotono che l’aveva trasformato in un’entità generica, priva di sembianze, lontana, di cui non riuscivo a visualizzare il volto”. Tadek giunge in una Polonia al tramonto dell’era sovietica, in un paese in cui la povertà si percepisce dagli sguardi rassegnati delle persone e persino dalla “mancanza dei fiammiferi”. Arrivando alla casa di riposo per reduci di guerra dove il padre è ricoverato Tadek si trova davanti un vecchio devastato nel fisico dall’eccessivo consumo di vodka e di tabacco, orgoglioso di quel figlio scrittore che viene “dall’America”, preda dei fantasmi di tutte le violenze commesse sia come partigiano, sia come marito e padre, ma anche delle atrocità subite per mano dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.

La narrazione procede in un susseguirsi di flashback: dal presente in cui Tadek si confronta con un genitore dal linguaggio pieno di rancore e da un atteggiamento bellicoso nelle più svariate situazioni quotidiane, dagli incontri con amici al pranzo in un ristorante di lusso, il lettore è proiettato nel passato del protagonista che rievoca con accenti commoventi l’epoca in cui lui e i suoi fratelli vivevano in un villaggio fuori Varsavia, poi nella cittadina di Wroclaw con la paura costante delle violenze del padre, perennemente ubriaco, che si insinuava in una vita che non aveva nulla della spensieratezza dell’infanzia. Tadek, il più piccolo, si sente responsabilizzato e in un clima di abbandono (il padre spesso si allontana da casa per lunghi periodi, si scoprirà poi che aveva una doppia famiglia), di difficoltà economiche, di mancanza di affetto cerca di proteggere la madre che tuttavia è incapace di difendere se stessa e i figli. Da qui la decisione di emigrare in Israele non per spirito sionista ma per sfuggire alle brutalità di Stefan e provare ad assicurare ai bambini una vita più dignitosa. L’incontro con il padre nella casa di riposo è segnato dai silenzi, dai sensi di colpa e dal risentimento che sedimentano nell’animo di entrambi da oltre vent’anni ma è anche l’occasione per Tadek, reso più maturo e consapevole da questo viaggio, di penetrare nel passato di un uomo che con il suo comportamento ha lasciato in eredità ai figli depressione e situazioni irrisolte. Durante il percorso che intraprendono insieme per tornare nei luoghi della sua infanzia Tadek scopre il vissuto tragico del padre e in pagine di straordinaria intensità e durezza il lettore entra in un tunnel di dolore senza scampo con il racconto della detenzione nel campo di concentramento di Majdanek dove Stefan è stato rinchiuso per le sue attività nella Resistenza, delle torture subite nel castello di Lublino, della morte di compagni il cui ricordo è ancora vivo, dei contadini di buon cuore che, dopo la fuga dal campo di Majdanek attraverso le fognature, gli offrono cibo e un riparo, degli ebrei catturati dai nazisti, dei delatori che ha ucciso con le sue mani, della cui morte ancora oggi non si pente. “Quella guerra è stata tremenda per tutti e anche a noi i tedeschi hanno ucciso tre milioni di polacchi, ma noi ci hanno ucciso come si uccide in guerra, mentre gli ebrei li hanno macellati come in un mattatoio. A Majdanek eravamo all’inferno, non c’è bestia in terra che viva una vita peggiore”.

Queste sono le pagine più dure del romanzo per la capacità dell’autore di raccontare luoghi, situazioni e persone con una forza visiva che toglie il fiato e ci induce a rallentare la lettura perché Olev, capace di pennellare ogni pagina, a volte la intinge di cupezza, a volte la irradia di luce. In questo percorso che è sì nei luoghi ma anche nell’anima dei protagonisti affiorano le verità mai confessate, i sentimenti di diffidenza dei parenti di Tadek, zie e cugini, nei confronti del padre di cui ricordano le menzogne, le violenze e i suoi inutili tentativi di riavvicinamento. A far da contrappunto al ricordo/incubo dei passi strascicati del padre quando tornava a casa ubriaco l’autore pone l’immagine di Tadek che prende sulle spalle quel vecchio consumato dall’alcol, fino a che il corpo dell’uno aderisce a quello dell’altro, per aiutarlo negli spostamenti che il suo fisico, ormai logoro, non è più in grado di compiere. Non può sfuggire il richiamo al mito di Enea e Anchise! Un viaggio spinoso quello compiuto da Tadek e Stefan alla ricerca di un eventuale riavvicinamento: il primo sperando di trovare negli occhi del padre un barlume di quell’affetto che non ha mai ricevuto per sentirsi, forse, rassicurato nella possibilità di essere un padre migliore per suo figlio e Stefan cercando un possibile perdono.

“Davanti ai miei occhi appare di nuovo il profilo di quell’estraneo che è mio padre e mi rendo conto di aver appena perso un’opportunità che, d’altronde, era inevitabile perdere, perché il nostro viaggio insieme era fin dal principio destinato a fallire e noi non ne abbiamo colpa. Padri e figli cercano di aggrapparsi l’un l’altro ma rimangono estranei, quel riconoscimento che tentiamo di ottenere dai nostri padri non arriverà mai”. “Canaglia” è un romanzo maturo e struggente scritto con umanità, compassione e un pizzico di umorismo che mette in scena, sullo sfondo della storia europea negli anni della Seconda Guerra Mondiale e del dopoguerra, una storia potente di padri e figli con una figura paterna discutibile, quella di Stefan, capace di suscitare i sentimenti più estremi e di invitarci a riflettere se sia possibile il perdono e la riconciliazione quando la verità squarcia il velo sui fantasmi del passato.


Giorgia Greco