Milan Kundera
Un Occidente prigioniero
Adelphi 2022, pp. 85
12,00 euro
eBook 5,99 euro.
Come l’Ucraina degli ultimi trent’anni, uscita dalla catacomba realsocialista dopo lo strappo del 1991 da Mosca, anche la Cecoslovacchia, dice Milan Kundera in un discorso al Congresso degli scrittori cechi del 1967, nasce dalla decisione di non lasciarsi inglobare da nazioni, lingue e culture affini ma estranee: la Germania nel caso di Praga, la Russia (zarista, bolscevica, putiniana) nel caso di Kiev. Kundera rivendica con forza questa decisione: «Gli intellettuali provenienti dal movimento per la rifioritura della nazione ceca conoscevano bene gli argomenti che pesavano in direzione opposta. Sapevano che una germanizzazione avrebbe semplificato la vita dei cechi, offrendo ai loro figli maggiori opportunità. Sapevano anche che appartenere a una nazione più grande conferisce maggior peso a ogni lavoro intellettuale, mentre la scienza divulgata in ceco – qui cito Matouš Klácel – “limita il riconoscimento del mio assiduo lavoro”». Non di meno, tra la resa alla cultura tedesca e l’avventura nazionale, i cechi non esitarono: legarono «la sopravvivenza» (e anzi l’esistenza stessa) «della nazione ai valori culturali che quest’ultima avrebbe dovuto produrre». Essi «aspiravano» – ricorda Kundera agli scrittori cecoslovacchi – «a far parte del mondo e dell’Europa». Autore all’epoca d’un solo romanzo, Lo scherzo, storia del destino kafkiano toccato a un giovane studente che spedisce per burla a un’amica una cartolina che inneggia a Trockij, Kundera sta parlando a Praga. Meno d’un anno dopo, dalle tenebre del Castello che sovrasta la nazione, usciranno colonne di carri armati imperscrutabili. «Dinanzi alla casa natale di Kafka», scrive Angelo Maria Ripellino in quei giorni, «si acquatta il rospo catafratto d’un tank», e intanto altri «dodici tank», sulla Piazza della Città Vecchia, «attorniano il monumento a Jan Hus», maestro di protestantesimo un secolo in anticipo sulla Riforma. Quindici anni più tardi, esule a Parigi e sul punto d’essere arruolato tra i massimi scrittori europei del Novecento grazie all’Insostenibile leggerezza dell’essere, il suo capolavoro del 1984, Kundera ribadisce con fierezza il senso delle aspirazioni ceche in un saggio che appare su «Le Débat, XXVII, nel novembre del 1983». In sostanza, dice, un’aspirazione sola, la stessa coltivata dalle altre nazioni dell’Est europeo, a cominciare dall’Ucraina, che appassiscono, «kafkianamente a Processo», sotto il tallone di ferro comunista: il ritorno in Europa. Quella di Kundera è una voce che parla a nome dell’«Occidente prigioniero» nel vasto Gulag asiatico e totalitario in cui Lenin ha preso il posto dello Zar (e presto Putin prenderà quello di Lenin, Stalin, Breznev).
Milan Kundera
Un Occidente prigioniero è anche il titolo delle due conferenze tradotte da Adelphi. Un esatto fotocolor anche della crisi in corso da febbraio nel Donbass ucraino: il dispotismo asiatico è (di nuovo e come sempre) balzato alla gola delle società aperte, che da parte loro sono minate all’interno dall’eterna tifoseria dei tiranni, in parte sinceramente comunista e/o nazifascistoide, in parte claque generosamente remunerata. Strappate all’Europa, e date in pasto al Cremlino, dai casi e dai calcoli della storia novecentesca, le nazioni dell’Est europeo, affacciate come sono sul deserto dei tartari, continuano a vivere sotto l’incubo delle bombe, dell’invasione, degli stupri e dei saccheggi, dell’arbitrio che Mosca e le sue fanfare propagandistiche in Occidente spacciano da settant’anni per reapolitik. Come nel 1956 a Budapest, come nel 1968 a Praga, quando il khanato bolscevico lanciò le sue orde contro le nazionalità ribelli, anche oggi a Kiev quel che la Russia combatte, prima della loro autonomia e indipendenza, è l’identità europea dei popoli dell’est. È all’esistenza dell’Occidente che la Russia, dagli zar a Putin, non intende rassegnarsi. «Ai confini orientali di quell’Occidente che è l’Europa centrale», spiega Kundera, «siamo sempre stati più sensibili al pericolo della potenza russa. Nel 1848 il grande storico František Palacký, la figura più rappresentativa della politica ceca del XIX secolo, indirizzò al parlamento rivoluzionario di Francoforte la famosa lettera con la quale giustificava l’esistenza dell’Impero absburgico, unico possibile baluardo contro la Russia, “una potenza che, avendo già oggi una sconfinata ampiezza, accresce la sua forza più di qualsiasi altro paese occidentale”. […] L’Europa centrale voleva essere l’immagine condensata dell’Europa e della sua multiforme ricchezza, una piccola Europa ultraeuropea, modello in miniatura dell’Europa delle nazioni concepita sulla base di questa semplice regola: il massimo di diversità nel minimo spazio. Come avrebbe potuto non inorridire di fronte alla Russia, che si fondava sulla regola opposta: il minimo di diversità nel massimo spazio?» Non ci sono margini per le differenze: tutto deve essere, o almeno apparire, come esige la macchina imperiale grande-russa, che tra avanzate e arretramenti non ha mai smesso di perseguire il suo scopo: cancellare, imprigionandolo, quello che ai suoi occhi è lo scandalo della libertà, i diritti del singolo, l’emancipazione della donna, il libero mercato, l’autodeterminazione. Contro questa macchina, votata all’espansione attraverso la distruzione-assimilazione dell’Occidente, già Marx aveva messo in guardia l’Europa nelle sue Rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVIII secolo (che non a caso Mosca, al tempo dei commissari del popolo e del Proletkult, escluse dalle edizioni canoniche di Marx). È tutelando il ritorno in Occidente delle nazioni europee soggette all’orda moscovita che l’Europa tutela anche la propria identità e il proprio diritto all’esistenza. Qualunque cosa si dica nei talk show, non ci sono compromessi possibili. Semplicemente non si possono consegnare due volte in un secolo le libere nazioni dell’Est europeo ai cannibali. «All’Europa centrale e alla sua passione per la diversità» – dice ancora Kundera – niente può «risultare più estraneo della Russia uniforme, uniformante, centralizzatrice, tesa a trasformare con temibile determinazione tutte le nazioni del suo impero (ucraini, lettoni, lituani, bielorussi, armeni, ecc.) in un unico popolo russo». Putin mette insieme, nel suo disperato assalto all’Ucraina, il nazionalsocialismo russo soi disant «denazificatore», l’ortodossia miliardaria e petrolifera del neopatriarcato moscovita, l’apologia della democrazia illiberale, l’esaltazione dello «spirito slavo» che già destava «l’irritazione del polacco Józef Konrad Korzeniowski, in arte Joseph Conrad» e persino le bandiere rosse con la falce e il martello che, come a Budapest e Praga in anni lontani, tornano a sventolare sui tank tuttora simili a rospi catafratti che avanzano tra le rovine delle città devastate. «Voglio sottolinearlo: è ai confini orientali dell’Occidente», dice ancora Kundera, «che percepiamo, meglio e più che altrove, la Russia come un Anti-Occidente: lì appare non come una potenza europea fra altre, ma come una civiltà altra». Ieri su Budapest e Praga, oggi su Bucha e Mariupol, da secoli sull’Europa intera, incombe l’ombra livida e terrorizzante del Castello moscovita.
Diego Gabutti - Italia Oggi