Sartre & Company 05/04/2022
Ritratti scelti da Diego Gabutti
Autore: Diego Gabutti
Sartre & Company
Ritratti scelti da Diego Gabutti

Mangia ananas, mastica fagiani. 2: Dai Processi di Mosca al «disgelo» e a  Pol Pot - Diego Gabutti - Libro - Mondadori Store
Estratti da Diego Gabutti, Mangia ananas, mastica fagiani, vol. 2. Dai Processi di Mosca al «disgelo» e a Pol Pot, WriteUp, Roma 2022


Jean-Paul Sartre - Wikipedia
Jean-Paul Sartre

Tra le cose che Sartre fece e disse alcune superano ogni immaginazione. L’intervista di due ore che, nel luglio del 1954, al ritorno da un viaggio nell’Unione Sovietica, Sartre rilasciò a un cronista del simpatizzante Libération, è da annoverare tra le più abiette descrizioni dello Stato sovietico che un intellettuale di fama abbia mai reso al mondo occidentale. Sartre dichiarò che se i cittadini sovietici non andavano all’estero non era perché il governo lo impedisse, ma perché non provavano alcun desiderio di lasciare il loro meraviglioso paese. «I cittadini sovietici» ribadì «criticano il loro governo molto più apertamente e in modo più efficace di quanto non facciamo noi». Anzi, «in Unione Sovietica vige la più totale libertà di critica». Molti anni dopo dovette ammettere di avere mentito.
Paul Johnson, Gli intellettuali.

Ecco il forno incandescente dove si fabbricano gli esistenzialismi; qui Sartre plasma nel piombo fuso la sua libertà-responsabilità. Lì c’è il laboratorio di poesia; più in là ecco i calderoni senza fondo dove ribollono le ideologie, le visioni del mondo e le fedi. Qui c’è la caverna del cattolicesimo. Più avanti la fonderia del marxismo, il martello pneumatico della psicanalisi, i pozzi artesiani di Hegel, le fresatrici fenomenologiche, le pile galvaniche e idrauliche del surrealismo e del pragmatismo.
Witold Gombrowicz, Diario 1953-1958.

Sartre e de Beauvoir diventano figure familiari nelle foto di tutti i giornali. [Sono continuamente] ritratti mentre conversano amichevolmente con vari dittatori dell’Asia e dell’Africa, lui ben vestito, da distinto signore del Primo Mondo, lei con i suoi golfini da direttrice di scuola, ravvivati da gonne e sciarpe «etniche». I commenti di Sartre sui regimi di cui sono ospiti non sono molto più sensati di quelli relativi alla Russia di Stalin. Su Fidel Castro: «Il paese emerso dalla rivoluzione cubana è una democrazia diretta». Sulla Iugoslavia di Tito: «È la realizzazione della mia filosofia». Sull’Egitto di Nasser: «Mi sono sempre rifiutato di parlare di socialismo in riferimento al regime egiziano, ma ora so che avevo torto». Particolarmente calorose furono le lodi per la Cina di Mao. Condannò con grande clamore i «crimini di guerra» nel Vietnam, paragonando gli americani ai nazisti (del resto, aveva dato del nazista anche a de Gaulle, dimenticandosi che mentre le sue commedie venivano rappresentate nella Parigi occupata da Hitler il generale stava combattendo i nazisti). Anche Simone de Beauvoir era sempre stata antiamericana. Nel 1947, al ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, aveva scritto sui Temps modernes un pezzo assurdo, pieno di esilaranti errori di ortografia («Greeniwich Village», «Max Tawin» per Mark Twain) e di fantasiose asserzioni, per esempio quella secondo la quale soltanto i ricchi avevano il diritto di mettere piede nei negozi della Quinta strada.
Paul Johnson, Gli intellettuali.

Pasternak è un grandissimo poeta, ma io non sono riuscita a leggere Il dottor Živago; l’autore non m’insegnava nulla d’un mondo davanti al quale sembrava essersi deliberatamente fatto cieco e sordo, e che circondava d’una nebbia in cui lui stesso si dissolveva. Per ingoiare questo mattone di nuvole compatte, la borghesia deve essere stata sorretta da un potente fanatismo, fanatismo che più tardi le ispirò una passione non meno assurda per il Tibet di cui sapeva ben poco ma che si era ribellato contro la dominazione cinese: il Dalai Lama divenne l’incarnazione dei valori occidentali e della libertà. Ancor più dell’URSS, la borghesia odiava la Cina.
Simone de Beauvoir, La forza delle cose.

Nel periodo d’oro dell’esistenzialismo, quando le sue commedie erano rappresentate dappertutto, non si vedeva una cravatta e una camicia bianca entro il raggio di due chilometri dal caffè dove lo scrittore sedeva ogni giorno in trono. Tutti quanti, giovani, vecchi, artisti, studenti, provinciali, miliardari, turisti, si facevano un punto d’onore di vestirsi con jeans, maglioni, giubbotti, camicie texane o scozzesi, fustagni, velluti e pellami vari, che anche allora si potevano benissimo comprare in qualsiasi negozio. Soltanto lui, Sartre, s’ostinava a portare camicia bianca e cravatta, soltanto lui continuava ad andare dal sarto. Conservò fino al 1968 lo stampo segreto e letale del professore francese di liceo, del prof de philò, che con la parola e la penna potrà demolire partiti e movimenti, librarsi su complessi sistemi di pensiero e su civiltà millenarie, ma che poi, calata la sera, rientra in una casa dove ogni tavolo esibisce un centrino di pizzo regalato dalla zia. [Ma poi ci fu un contrordine e anche lui passò al casual].
Fruttero e Lucentini, Il vecchio giubbotto del professor Sartre

Abolitele, se vi piace, ma la pagherete cara! I reumatismi, le diarree, le cistiti, le prostatiti, le nevriti, le lombaggini vi aspettano. Se tra loro e voi fosse una barriera di cotone arretrerebbero brontolando: «Maledette mutande». Tuttavia ho piacere che Sartre abbia scoperto, poco dopo l’ebbrezza dei jeans, quella dell’artrite. Il disgraziato si lamenta dell’artrite mentre scoppia di compiacenza per i suoi incomparabili jeans antiborghesi, che porta ininterrottamente, anche a letto, nelle caserme dei Casseurs, in mezzo alle correnti libertarie, senza capire che della sua artrite sono sicuramente responsabili, oltre a errori di dieta e di logica che il cielo punisce sempre, proprio quei suoi calzoni da massificato, che adesso porterà forse, in un eroico sforzo di identificazione con le Masse, senza più mutande, per farsi meglio infilzare le reni dal vento del boulevards. Artrite, sartrite, cose trite… […] Teneteveli [o sartriani] i vostri jeans strangolatori, ma almeno mutandatevi il culo!
Guido Ceronetti, Senza mutande.

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