Edmund De Waal - Lettere a Camondo - 17/02/2022
Autore: Giorgia Greco & Angelo Pezzana
Edmund De Waal
Lettere a Camondo
Bollati Boringhieri

Caro lettore, cara lettrice,
mentre chiudo le ultime pagine dello struggente Lettere a Camondo (da leggersi con l’accento sulla o finale, alla francese), di Edmund De Waal appena uscito da Bollati Boringhieri, non posso trattenere un pensiero banale, mille volte sfuggito a chiunque: noi abbiamo Israele, quello che è accaduto alla famiglia Camondo – e a molti altri - non potrà accaderci perché adesso esiste Israele. La storia è nota. Giunti da Costantinopoli e radicatisi nella Parigi di fine Ottocento, i Camondo sono banchieri: nella capitale, Moises de Camondo costruisce un principesco hotel particulier in Rue de Monceau 61, zona in cui i nuovi e facoltosi ebrei ambivano abitare, lo riempie di opere d’arte stupefacenti, ne fa un vero e proprio scrigno di mirabilia, un palazzo-museo che poi donerà allo Stato in memoria del suo amatissimo figlio Nissim e ancor oggi tra i gioielli del patrimonio artistico francese. Il giovane e brillante Nissim de Camondo, partito volontario nella Grande Guerra, cadrà col suo aereo combattendo contro i nemici della patria francese e suo padre regalerà ai francesi la loro casa-museo, divenuta per lui impraticabile, nella scia di tristezza del lutto. A sua volta, Moises de Camondo sarà un cittadino modello, appassionato e munifico verso una Francia che lo pugnalerà invariabilmente alle spalle. A nulla serviranno l’immensa fortuna accumulata, la legion d’onore, le altolocate entrature e le amicizie politiche, la generosità e lo spirito filantropico dispiegati a fiumi: la famiglia Camondo sparirà a Drancy e ad Auschwitz, inabissandosi insieme all’ebraismo francese. Una vicenda di odio sociale, di invidiosa rapacità e spietata cupidigia, raccontata magistralmente da De Waal, che lascia sbalorditi per la sua efferatezza psicologica, per l’accanimento che ci viene narrato. Immaginiamo i Camondo trascinati via dai loro libri, dalla fede nella Bildung, nella cultura, nel sapere, nelle arti, costretti dai loro vicini nazisti a sfregare il marciapiede in ginocchio, con lisciva e spazzolone. La loro ebraicità è stata così discreta, quasi non si vede, quasi non si avverte. Sono parte della città, parte della Francia, allineati, assimilati, entusiasti di perdersi nell’abbraccio della raffinatezza, della bellezza, del sapere, degli ideali dell’Illuminismo. Un’identità ebraica vissuta prudentemente sottovoce: ma i sussurri prima o poi diventano sempre grida. Se il baratto identitario è scivoloso, la rinuncia identitaria è una caduta poderosa nel nulla. Alla vigilia del 27 gennaio, Giorno della Memoria, la storia dei Camondo ci interroga ancora una volta sul dialogo tormentato tra condizione ebraica, identità minoritaria e società civile, in tempi di rinata e infastidita idiosincrasia verso Israele e il mondo ebraico. Zionophobia: un termine inglese per indicare le nuove forme di bigotto antisionismo, di fobia e animosità ossessiva nei confronti dell’idea di una homeland per gli ebrei, una madrepatria riconosciuta e accettata (ma quando e come le critiche verso Israele oltrepassano la linea rossa per entrare nel territorio dell’antisemitismo? È possibile definirne il confine?). Una sequenza di domande ci sollecita: che tracce lasciamo dietro di noi quando ci sradichiamo? Che cosa fa di noi l’esilio? Che cosa genera? Chi diventiamo approdando altrove? La vicenda dei Camondo resta un possibile, doloroso paradigma.

Fiona Diwan - Bollettino della Comunità ebraica di Milano