Un pentimento sospetto
Come il clima natalizio può confondere le idee ai lettori meno smaliziati
Testata: Corriere della Sera
Data: 24/12/2002
Pagina: 14
Autore: Giovanni Bianconi
Titolo: «Sparai a Fiumicino, ora me ne vergogno»
Sul Corriere della Sera, appare una lunga intervista a Khaled, uno dei terroristi palestinesi che presero parte, nel lontano 1985, alla strage di Fiumicino, nella quale persero la vita ben 13 persone.
Il terrorista si trova in carcere da 17 anni, e si dichiara pentito del suo gesto.
Si potrebbe pensare che il carcere fa bene, che fa meditare e capire le cose, ma se leggiamo attentamente, ci rendiamo conto che non è così.
Perchè, dice Khaled, il terrorismo non è una buona cosa? Perchè danneggia la causa palestinese. Non perchè semina la morte e la disperazione tra civili innocenti che non hanno altra colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Se non danneggiasse la causa palestinese, allora uccidere uomini donne e bambini in un aereoporto sarebbe una buona cosa?
Khaled prosegue, ripercorrendo le fasi principali della sua vita. Nato nel 1967 in Libano (quindi non in Palestina), entra a far parte del Fatah. A quindici anni impara a fabbricare bombe e comincia ad uccidere un certo numero di soldati israeliani, poi viene mandato in Pakistan per organizzare un attentato, annullato, contro un ambasciatore giordano: era un adolescente. Nel 1972 trova i suoi eroi nei terroristi che compiono l'attentato al villaggio olimpico e, infine, viene scelto per compiere una strage a Fiumicino.
L'articolo finisce con la speranza, che Khaled esprime, di tornare a vivere un giorno in Palestina (ma non erea nato in Libano?), in una Palestina libera e democratica guidata dal presidente Arafat.
Come fa il giornalista a non obiettare che, con Arafat, lo stato Palestinese non sarà mai libero e democratico? Perchè non sottolinea che, ad esempio, Arafat ha trovato la scusa dell'occupazione israeliana per non indire le elezioni previste per il 20 gennaio? Forse che, nel momento in cui aveva previsto le elezioni, la situazione era diversa?
La verità è che certe cose non si vogliono dire. Il pentimento di Khaled è a dir poco sospetto, l'articolo è permeato di un buonismo adatto al clima natalizio ed è un'occasione in più per confondere le idee ai lettori meno smaliziati.
Riportiamo l'articolo:

ROMA - A metà della vita vissuta finora, Khaled uccise e rischiò di essere ucciso: «Cominciai a sparare, poi non ricordo più nulla fino al momento in cui mi sono svegliato, in mezzo ai poliziotti che mi interrogavano». Aveva 18 anni. Oggi ne ha 35, e da 17 è in prigione: «Quando sono partito dal Libano ero convinto di servire il mio popolo. Oggi invece credo che chi uccide ed è disposto a essere ucciso fa solo danni alla nostra causa, perché ci fa perdere consenso. Io non ho tradito, ma ho capito che attraverso il terrore non arriveremo a niente. Ogni attentato dei kamikaze è un punto a favore di chi non vuole uno Stato palestinese libero e democratico». Il 27 dicembre 1985 Khaled Ibrahim Mahmoud guidò il commando di terroristi che all’aeroporto di Fiumicino uccise tredici persone e ne ferì più di ottanta, sparando contro il banco delle linee aeree israeliane. Il fuoco della sicurezza falciò gli assalitori: tre morirono all’istante, Khaled rimase ferito gravemente, unico superstite. Fu sottratto al linciaggio, da allora è agli arresti, mai un giorno col naso fuori dalla prigione. Faceva parte del gruppo di Abu Nidal, il leader della lotta armata palestinese trovato morto in un appartamento di Bagdad lo scorso agosto: «Non so se si è suicidato o se è stato assassinato. Cambia poco, il suo tempo era comunque finito. Oggi il problema sono gli integralisti e le stragi che stanno trasformando Israele da aggressore in vittima». Khaled si ferma, si concede un sorriso pur rimanendo serio: «Col mio passato non posso certo fare prediche, ma di tempo per riflettere ne ho avuto abbastanza. E penso che ammazzare donne e bambini non fa onore alla causa né ai combattenti».
Khaled parla in una saletta del carcere romano di Rebibbia, i capelli ricci e imbiancati nonostante l’età ancora giovane, fisico massiccio, un filo di barba. In cella studia - gli mancano tre esami più la tesi per laurearsi in Scienze politiche - e guarda la tv. I telegiornali portano dietro le sbarre le bombe in Israele, la minaccia dell'integralismo islamico e di Bin Laden, la possibile guerra all’Iraq: «Vedere le immagini di quei morti mi fa vergognare, ma non dimentico le responsabilità di Israele. Come si può pretendere la pace senza dare diritti ai palestinesi? E a che servirà l’attacco degli Usa a Saddam Hussein se non a creare altri martiri?».
Oggi quel terrorista sbarcato a Roma per compiere una strage si schiera con Arafat, «perché nessuno ha fatto quanto lui per il nostro popolo», ma quando nella sala imbarchi di Fiumicino imbracciò il suo kalashnikov vedeva le cose in modo diverso, «pensavo fosse un traditore». Una convinzione maturata nella prima metà della vita di Khaled, nato nel dicembre 1967 nel Sud del Libano, ai confini con Israele. «Sono venuto al mondo durante la guerra, e sono cresciuto tra bombe e campi di addestramento. Due miei zii stavano con Al Fatah, il gruppo di Arafat. Li seguii nei combattimenti contro altre fazioni libanesi e contro gli israeliani. La svolta arrivò con l’assedio di Arafat a Beirut: rimanemmo tagliati fuori da tutto, guerrieri senza capi e senza ordini. E quando Arafat andò a Tunisi vinse la propaganda di chi lo dipingeva come un traditore. Come tanti altri passai con Al Fatah Consiglio Rivoluzionario, il gruppo di Abu Nidal».
Era il 1982, e da «guerriero di strada» che lanciava granate e sparava contro le camionette dei militari il quindicenne Khaled divenne un soldato da addestrare per nuove guerre. Anche fuori dalla Palestina. «Feci dei corsi di tecnica militare, imparai a fabbricare bombe e sparare con mezzi pesanti. Entrai in una squadra di lanciarazzi, non so dire quanti soldati israeliani ho ucciso coi miei katiusha ». Il mondo di Khaled rimase la valle della Bekaa finché l’organizzazione decise, dopo un paio d’anni di addestramenti e combattimenti, che poteva servire all’estero. «Mi mandarono in Pakistan per un attentato contro l’ambasciatore di Giordania, ma venne rinviato e rientrai». Il tempo di qualche missione a Cipro «contro i servizi segreti israeliani e contro l’Olp», e di approfondire la preparazione psicologica «per convincersi che morire per la causa è un bene: io non ho mai avuto modo di pensare se la lotta armata fosse giusta o sbagliata, era la mia vita e basta». Poi la partenza per l’Italia, a fine novembre 1985.
«Nell’ultimo periodo ci eravamo esercitati ad assaltare un aereo e prenderne il possesso - racconta Khaled - senza sapere che cosa avremmo dovuto fare né dove». Salirono in quattro su un volo Damasco-Belgrado, e dalla Jugoslavia entrarono via terra, ciascuno col suo documento falso. «Io conoscevo solo uno dei compagni, Taysir, gli altri due li ho incontrati la prima volta alla partenza». In Italia, tra Firenze e Roma, rimasero un mese facendo sopralluoghi e visitando monumenti, in attesa del «contatto»: «Una persona mai vista prima né rivista dopo. Venne all’albergo dove stavamo, ci portò a prendere le armi sotterrate in un parco, la sera le pulimmo, poi andammo al cinema a vedere Rambo 2 . L’indomani salimmo su due taxi per l’aeroporto».
La consegna era di entrare nell’aereo della El Al, sequestrare equipaggio e passeggeri, leggere un proclama e poi resistere: «Non si trattava di un’azione da kamikaze ma quasi, con un’altissima probabilità di essere uccisi. Durante il percorso verso Fiumicino pensai a Monaco ’72, quando alle Olimpiadi un commando sequestrò gli atleti israeliani; un’azione di grande clamore, che per me era un esempio. Arrivati all’aeroporto trovammo tutti i varchi controllati tranne due, una sorta di invito a passare proprio da lì. Mi insospettii, sembrava che ci stessero aspettando... Ma ormai non si poteva più tornare indietro. Ci dividemmo, andai al bar per studiare la situazione, le armi nascoste nella borsa. Mentre stavo ordinando una bibita vidi una pistola in mano a un uomo, pensai che fosse una guardia, estrassi il kalashnikov e cominciai a sparare».
Lo fecero anche gli altri tre palestinesi, gli uomini della sicurezza israeliana e forse anche gli italiani. Fu un massacro, sedici morti compresi tre attentatori. Al risveglio Khaled si ritrovò in manette, poi entrò in carcere, fece qualche dichiarazione ai giudici e ottenne una condanna a trent’anni di galera anziché l’ergastolo inflitto al mandante della strage, Abu Nidal. «Che cosa sia successo non lo so ancora bene - dice -. Ma so che a Vienna, dove si svolse un’azione simile in contemporanea, le cose sono andate diversamente. Forse lì le autorità non hanno lasciato campo libero agli israeliani, come probabilmente è successo qui».
I dubbi di Khaled su quel giorno, durante 17 anni trascorsi in cella sono cresciuti insieme a quelli sulla lotta armata. E sulla reale volontà di Israele di fermare, oggi, i kamikaze: «Come possono girare così facilmente con l’esplosivo in macchina o addosso?». Ma per Hamas e le Brigate Al Aqsa non ci sono giustificazioni, «i kamikaze sono delle vittime, chi li manda è il vero nemico dei palestinesi», come non ce ne sono per Bin Laden: «Nessuno ha danneggiato l’Islam quanto lui, l’equazione tra quella religione e il terrorismo è colpa sua».
Adesso Khaled guarda i telegiornali e le partite di calcio, «tifo per la Juventus», studia «per non perdere tempo e magari trovare un lavoro quando uscirò di qui», ascolta musica, «motivi arabi e Pink Floyd», guadagna qualche euro coi piccoli impieghi del carcere: distribuzione del cibo, giardinaggio, pulizie. E quando avrà finito di scontare la sua pena gli piacerebbe tornare in quella Palestina «che non sarà mai uno Stato islamico, ma un Paese libero e democratico. E’ lì che io vorrei vivere, un giorno».
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