Benino i giornalisti; il frate no
Il nuovo libro di Marc Innaro, e Giuseppe Bonavolontà
Testata:
Data: 15/12/2002
Pagina: 1
Autore: Barbara Mella
Titolo: Marc Innaro, Giuseppe Bonavolontà -: "L'assedio della Natività" Ponte alle Grazie ed.
Libro strano, questo di Innaro e Bonavolontà. Che non parte male, tutto sommato: faziosetto, certo - e chi mai si sarebbe aspettato qualcosa di diverso? - e tuttavia la verità riesce a trovarvi spazio: "Due lunghe raffiche, violentissime, di kalashnikov mandano in frantumi la serratura assieme alla nostra illusione che la Natività fosse il posto più sicuro di tutta Betlemme. Mauro, che russava, si risveglia con la telecamera in mano, in tempo per accenderla e farsi puntare il kalashnikov in mezzo agli occhi da un ragazzone palestinese, un armadio in mimetica, trafelato, che in arabo gli dice 'Non ci provare'." Nessun dubbio, dunque: la Natività è stata violata dai palestinesi entrati con le armi; Innaro conosce la verità ed è anche intenzionato a dirla. Qual è allora il problema? Il problema è che ad un certo punto ... finiscono le sigarette. E che cosa c'entrano le sigarette con il dramma della Natività? - si chiederà qualche non fumatore incallito, ignaro della magia di quei candidi cilindretti dall'aromatico cuore marrone. C'entrano, eccome se c'entrano! Perché quando viene contattato da un ufficiale israeliano che gli annuncia di aver pronto un piano per liberare i giornalisti, il nostro prode Innaro, a nome anche dei colleghi, rifiuta sdegnosamente: non siamo mica ostaggi, che ci dobbiate salvare! E poi con che cuore potremmo abbandonare i frati, che ci hanno salvati accogliendoci? Solo che poi, per l'appunto, finiscono le sigarette, e non resta che lasciarsi liberare. E da questo punto in poi Innaro non può più raccontare in prima persona ciò che accade nella basilica, e deve cedere la parola a padre Ibrahim Faltas, nella cui etica il rispetto per la verità non sembra proprio avere un posto di rilievo. La prima cosa che colpisce, nelle sue cronache, è proprio un sapore di intrinseca falsità, che esplode fuori in ogni riga. Per ognuno di quei trentanove giorni ci trascrive devotamente le preghiere pronunciate ogni sera e ad ogni singolo avvenimento. I palestinesi armati non vengono chiamati altro che "i ragazzi" o "il popolo della basilica". E sempre presenti, naturalmente, le litanie sul rischio di morire di fame, sulla "fame nera" che attanaglia tutti all'interno della basilica. Forse, prima di affrontare le dichiarazioni di padre Faltas, sarà bene rileggere quanto scritto da Lorenzo Cremonesi: "Tutto appare come è appena stato lasciato dai palestinesi. [...] Resti di cibo ovunque, tracce di bivacchi improvvisati sin sotto l'altare,
letti di fortuna ricavati sotto i mosaici ai muri, nelle navate, e poi
ancora cuscini lerci, una scatola di sardine ammuffite, radio sventrate,
posate sporche, piatti usati, ciabatte, scarpe vecchie, vestiti unti,
forbici. Negli angoli regna un tanfo insopportabile. Nessuno deve aver
corso il rischio di morire di fame. Negli armadi usati per gli arredi
sacri ai lati dell'altare principale si notano sacchi di riso, scatole
di spaghetti, sale, zucchero, farina, conserve di carciofini, frutta e
verdura che marciscono, scatolette di mais, hummus in vasi di plastica.
L'acqua era presa dalle cisterne nel chiostro e nei diversi giardini del
complesso, poi veniva messa in taniche di plastica gialla da 20 o 30
litri sparse dovunque. [...] Nelle cucine del convento francescano si
trova ancora formaggio e salame. E non sembra proprio che se il cibo
fosse davvero scarseggiato i palestinesi sarebbero stati così pronti a
lasciare che si potessero aprire le scatole di formaggini per poi
lasciarne marcire almeno metà del contenuto in bella vista sulle
balaustre dell'altare". Vediamo invece che cosa racconta il francescano "testimone": "Era tanta la fame che aveva ingerito delle erbe sconosciute raccolte in giardino. (...) Se aveste visto quello che mangiavano in quei giorni nella Basilica. Praticamente qualsiasi cosa avesse colore verde e un'aria vagamente commestibile. Nel chiostro di Santa Caterina c'erano due piccoli alberi di limone che ancora non danno frutti. Sono stati spogliati delle foglie e dispero che continuino a vivere. I palestinesi abbrustolivano le foglie e le mangiavano". E addiritura, in un lampo di genio creativo: "Mi capitava di vedere il cuoco Abu Ibrahim che cucinava solo acqua bollita con qualche erba rimediata". Peccato che non possiamo provare la ricetta, non essendoci stato detto per quanto tempo bisogna far bollire l'acqua prima di cucinarla. Un'altra delle "fisse" di padre Faltas, è l'estrema armonia che regna fra il "popolo della basilica": nessuno è ostaggio di nessuno, tutti coloro che sono lì ci restano per libera scelta; e infatti, dopo aver proposto loro di far uscire almeno i ragazzini, racconta: "Mi hanno risposto: 'sono i ragazzini a rifiutarsi di uscire' ". Peccato che il diavolo, come è noto, anche quello dei francescani, faccia regolarmente le pentole prive di coperchi, e così, poche pagine più avanti: "Dal buio della Basilica quella sera sono fuggiti cinque agenti della polizia palestinese. Non hanno avvertito nessuno e sono scivolati via dalla porta degli armeni. Dovevano aver preso accordi con gli israeliani, altrimenti sarebbero stati ammazzati. 'Sono dei collaborazionisti' ha denunciato qualcuno rimasto dentro, rosso di rabbia". E ancora: "Nel frattempo l'avvocato Salman era uscito per una nuova sessione di trattative con gli israeliani. Si discuteva di come liberare un altro gruppo. I palestinesi hanno detto: 'Okay, facciamo uscire dei giovani se voi fate entrare il cibo per chi rimane dentro' ". Tutto chiaro, dunque: i palestinesi non trattengono nessuno, ognuno è libero di restare o andare, a suo piacimento. Quanto ai sentimenti personali di padre Ibrahim: "Ho paura. Ci sentiamo presi tra due fuochi: i palestinesi qui, GLI EBREI fuori": caso mai qualcuno avesse avuto dei dubbi. E verso la conclusione, con sommo sprezzo del ridicolo, arriva addirittura a recitare: "Grazie a Dio per avermi conservato dalla parte della verità, tenendomi lontano dall'arroganza delle menzogne". E qui preferiamo astenerci da ogni commento, che sarebbe davvero superfluo.
E la coppia Innaro-Bonavolontà, nel frattempo? La coppia commenta quanto accade, quanto vede dall'esterno, quanto sente dai testimoni più o meno diretti della vicenda. Si nota, in generale, un certo sforzo di guardare gli avvenimenti con occhi non strabici. Ciò che sta avvenendo nella basilica viene più volte chiamato "l'assedio-occupazione", viene dato un discreto spazio all'impressionante serie di micidiali attentati che hanno preceduto l'occupazione di Betlemme da parte dell'esercito israeliano, si presta attenzione anche alle sofferenze dell'altra parte: "Immaginate cosa può essere vivere con il coprifuoco quando dura settimane. E' un incubo, con i bambini che scoppiano dentro casa, con i rischi che si corrono anche solo ad affacciarsi da una finestra. Non è tanto diverso dalla realtà che vivono gli israeliani alle prese con le insidie del terrorismo nascosto dietro ogni angolo. Anche loro sono costretti a tenere i bambini più lontani possibile dal pericolo, a farli stare segregati in casa". Racconta, fra un episodio e l'altro della vicenda in corso, Storia e storie della regione. Si può notare qualche omissione, come quando parla del Baby Hospital fondato nel 1952 da un prete svizzero sensibile alle condizioni di indigenza che provocavano tanti morti fra i bambini, o dell'Università cattolica di Betlemme voluta nel 1964 da Paolo VI, preoccupato per il problema dell'istruzione dei giovani palestinesi, senza ricordare - molti lettori probabilmente lo ignorano - che a quell'epoca l'area non era sotto "occupazione" israeliana, bensì in mani arabe. Ma nel complesso la narrazione appare abbastanza equilibrata - soprattutto se confrontata con altre pubblicazioni attualmente in circolazione. Troviamo ironiche denunce: "La grande villa in stile hollywoodiano che Rashid si è fatto costruire a Ramallah col suo magro stipendio di alto funzionario palestinese", e addirittura un incredibile, inaspettato elogio indiretto di Sharon: "Ma Omri Sharon non ha la statura morale, politica, militare del suo illustre genitore". E ancora di più riusciamo a trovare scavando tra le righe. In conclusione, se non fosse per l'ingombrante presenza di padre Ibrahim Faltas, il libro non sarebbe da bocciare, ma le menzogne del santo francescano gettano un'ipoteca davvero pesante su tutta la narrazione.

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