La famiglia Singer
Recensione di Diego Gabutti
(da Italia Oggi)
Maurice Carr, La famiglia Singer, Tre editori 2021, pp. 236, 18,00 euro.
Qualcosa nel loro DNA – l’incancellabile impronta che l’Altissimo, Adonai, «esaltato e benedetto sia il suo nome», imprime su ciascuno – ne fa dei narratori di storie. Più che scrittori e romanzieri, meno che teologi, ma sia romanzieri che teologi, i Singer sono predestinati. Raccontare storie – in particolare raccontare le storie che raccontano la Storia, una tempesta in cui siamo tutti giudei, tutti perseguitati e assassinati – è la parte che è stata loro assegnata nella commedia della Creazione. Uno di questi predestinati, Maurice Carr, al secolo Morris (Moishe) Kreitman, nato nel 1913, morto nel 2003, è nipote di Isaac e Israel Singer e unico figlio di Esther Singer, anche lei tormentata narratrice di storie, sia pure meno fortunata dei fratelli minori. Madre ingombrante, zii lontani ed estranei e non di meno più ingombranti ancora, Maurice Carr vive le due guerre mondiali a Londra, da giovane scrive un romanzo e cura un’antologia di racconti ebraici, dove c’è dentro di tutto: Kafka, gli zii e la mamma, Zweig, Il’ja Ėrenburg, Ernst Toller, Marcel Proust.
Ma la sua carriera letteraria finisce qui. In vista della guerra a Hitler passa al giornalismo: ha famiglia, servono quattrini, e la letteratura è decisamente un lusso quando non si scrivono best seller. Per vent’anni è corrispondente dell’agenzia Reuter a Parigi. Pensionato, si trasferisce a Tel Aviv, poi torna a Parigi per stare vicino alla figlia, Hazel Karr, e negli ultimi anni scrive La famiglia Singer, un sobrio memoir nel quale racconta la propria vita d’ebreo negli abissi del XX secolo alla luce della predestinazione di famiglia: giù per il gran toboga della Storia, e tutte quelle storie da raccontare. «Torrenti di sangue scorreranno sotto i ponti», scrive, «montagne di ceneri umane saranno sparse ai quattro venti, il genocidio sarà considerato tecnologia di punta e sulla terra regnerà la follia suicida prima che l’ingenuo ragazzo che io sono [stato all’inizio] comprenda la versione biblica della fraternità di Caino e Abele». È così che tutti abbiamo capito il Novecento e le sue catastrofi di dimensioni bibliche: niente teoria, ma per esperienza. Hazel Karr, illustratrice e pittrice, commenta il testo di suo padre con immagini belle e cupe, fortemente espressioniste (in questi giorni, a Parigi, presso il Centre d'Art et Culture Juive, è in cartellone una mostra di suoi dipinti «che illustrano le vicende della famosa famiglia Singer»). Attraverso le storie che si raccontano in famiglia, attraverso rarissimi (e poco calorosi) incontri, che a loro volta diventano storie da raccontare, Carr esplora i giorni e le opere dei Singer Brothers: Varsavia, la Grande guerra, la vita di villaggio, la rivoluzione russa, poi New York, l’Inghilterra, un’altra guerra, la Shoah, Israele. Tutto un groviglio di storie e di personaggi dalle anime a loro volta aggrovigliate (intagliatori di diamanti, socialisti, intellettuali, sarti, rabbini, cabalisti) che rendono testimonianza della tragica epopea degli ebrei ashkenaziti, che pagano cara, nell’età degli antropofaghi, la tenacia con la quale ribadiscono la propria identità ebraica. E se fosse andata diversamente, si chiede Carr pensando a «cosa sarebbe potuto avvenire se l'Accademia d'Arte di Vienna avesse ammesso Adolf Schicklgruber, l’uomo privo di talento che aspirava a diventare artista pittore? Avrebbe allora potuto fare una carriera modesta vendendo le sue croste. Incerto sulla sua paternità, le avrebbe forse firmate Hitler. Ed ecco! Problema risolto!» Si riconosce, in quest’ucronia di poche righe, l’inconfondibile tocco di famiglia: salvare il mondo con una storia.
Ma il Singer Touch ha la sua faccia dispari: le storie, per quanto belle e fascinose, non sono taumaturgiche, e il mondo non vuole essere salvato. «Ripensandoci» – prosegue dunque Carr – «questo scenario non regge. Al posto di Schicklgruber, un altro despota rabbioso e infatuato di sé avrebbe forse preso il potere. Sarebbe stato anche lui un agitatore, un Capo che avrebbe cercato di appagare la frustrazione del lumpenproletariat, trasformando il complesso d'inferiorità dei sottoproletari in un sentimento esaltato di superiorità poiché non appartenevano forse alla razza bionda dei padroni?» Di questa Storia irrimediabile, alla quale le singole storie s’oppongono ma una dopo l’altra vengono tutte travolte e spazzate via, sono testimoni Israel e Isaac Singer, il primo morto poco più che cinquantenne nel 1944, il secondo Premio Nobel per la letteratura nel 1978. Annientato dalle Einsatzgruppen hitleriane, del mondo raccontato dai fratelli Singer non rimane granché, a parte le storie e pochi superstiti. È come se un meteorite si fosse abbattuto sulle comunità degli ebrei ashkenaziti, che i pogrom, nei secoli, avevano spinto sempre più a est, dalla Germania alla Polonia, dalle persecuzioni cristiane a quelle nazionaliste e socialiste, su su fino all’apocalisse hitleriana. È per resistere all’assalto delle nuove Einsatzgruppen – le squadre di rastrellamento dell’oblio – che i Singer sono stati chiamati a raccontare la storia dell’halte heim, l’enclave tradizionale degli ashkenaziti di Varsavia, e i loro destini labirintici. Fu Esther Singer per prima – «mia madre», racconta Carr – «a prendere la penna» per raccontare le storie di «contadini, ebrei, artigiani e shlemiels, buoni a nulla». Israel e Isaac, al loro turno, allargarono il raggio delle storie mentre l’halte heim si estendeva, allungandosi a est e ovest, già braccato dai nazifascisti, ancora lusingato e attratto dalle promesse del comunismo nascente. Isaac e Israel aggiornarono al canovaccio del Novecento, secolo votato alla distruzione, anche il classico repertorio dei personaggi ashkenaziti schizzando nuove e inquietanti figure di sant’uomini, fuggiaschi, mercanti e imprenditori, ex ebrei, ebrei di ritorno, rivoluzionari, atei, imbroglioni e pazzi di dio. Altro tocco di famiglia: la teologia pulp, la teologia radicale. Scrive ancora Carr: «C’è un’idea che mi ronza in testa da qualche tempo, ma che penso valga meglio tenere per me, ed è che Elohim, l’imperscrutabile creatore dell’universo, non può essere meglio servito che dall’amore per il dono della vita. Jehovah, invece, non è Elohim ma un essere umano immortale, il quale. esige la venerazione da parte di mortali che alleva in un suo giardino zoologico terrestre».
Diego Gabutti