Israele, startup: come cambiano economia e agroalimentare
Due servizi di Fiammetta Martegani
Testata: Avvenire
Data: 20/10/2021
Pagina: 3
Autore: Fiammetta Martegani
Titolo: Con le startup che coltivano cellule in laboratorio Israele guarda al futuro della carne senza animali - In Israele le startup si scoprono 'circolari'
Riprendiamo da AVVENIRE - Speciale Agroalimentare di oggi, 20/10/2021, a pag.3 con il titolo "Con le startup che coltivano cellule in laboratorio Israele guarda al futuro della carne senza animali" l'analisi di Fiammetta Martegani; della stessa giornalista, da AVVENIRE - Economia Civile, a pag. 5, l'articolo "In Israele le startup si scoprono 'circolari' ".

Ecco gli articoli:

"Con le startup che coltivano cellule in laboratorio Israele guarda al futuro della carne senza animali"

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Fiammetta Martegani

“Un giorno sfuggiremo all'assurdità di allevare un pollo intero per mangiarne il petto o l'ala, coltivando queste parti separatamente, con i mezzi adatti per farlo». Sono parole di Winston Churchill che, nel 1931, quasi come in una profezia, già immaginava un mondo «non così lontano da quello che stiamo cercando di costruire» commenta Nir Goldstein, ceo di Good Food Institute Israel (GFI), organizzazione non profit nata a Tel Aviv nel 2019. Fin dalla sua fondazione, lo Stato ebraico ha dovuto adattarsi ad un ambiente impervio. Oltre a riuscire a far sbocciare il deserto del Negev, dove oggi si trovano la maggior parte delle industrie alimentari israeliane, è riuscito soprattutto a far fiorire la ricerca nelle tecnologie che oggi rendono Startup Nation leader mondiale nel settore, e nella sua capacità di adattarsi ai cambiamenti globali. «Ormai da anni - spiega Goldstein - le principali agenzie internazionali specializzate in questo campo riconoscono che l'attuale sistema di produzione delle carne sia insostenibile, inefficiente, e da annoverarsi tra i principali fattori che contribuiscono al cambiamento climatico e al degrado ambientale». Il bestiame, infatti, fornisce solo il 18% delle calorie consumate dagli esseri umani, ma occupa il 77% dei terreni agricoli globali. La coltivazione diretta dalle cellule, invece, risulterebbe molto più efficiente, poiché tale processo utilizza gli elementi di base necessari per costruire muscoli e grasso attraverso lo stesso percorso biologico che avviene all'interno di un animale, ma questa maggiore efficienza andrebbe a tutto vantaggio della biodiversità, evitando che molti animali vivano in stretto confinamento. Questo, a sua volta, ridurrebbe drasticamente la necessità di antibiotici nella produzione, nonché il rischio di malattie trasmettibili dagli animali. Tuttavia, dallo sviluppo della linea cellulare alla progettazione del bioprocessore, ci sono ancora una serie di sfide da affrontare prima che la carne coltivata sia ampiamente disponibile e competitiva in termini di costi. Sebbene esistano centinaia di aziende in tutto il mondo, nessuna ha ancora raggiunto la produzione a livello commerciale in termini di economia di scala. Eppure, secondo le proiezioni di Bardays, il mercato della carne alternativa - sia di origine vegetale sia coltivata - raggiungerà il 10% del mercato globale della carne entro il 2030, per un valore di 140 miliardi di dollari. Non sorprende, dunque, se negli ultimi anni Israele si sia affermato come punto di riferimento per l'innovazione nel campo, con investimenti incrementati di otto volte: dai 14 milioni di dollari nel 2018 ai 114 milioni nel 2020 e una crescita annuale del 154% nell'anno della pandemia. I prodotti più in espansione sono proprio quelli delle startup di proteine di origine animale - incluso il latte coltivato animal-free - in cui sono affluiti 77 milioni di dollari, tanto che nel 2020 ben quattro di queste aziende sono diventate pubbliche e quotate presso la Borsa di Tel Aviv. Oggi oltre un centinaio di società israeliane sono attive in questo ramo. Israele è ora il secondo Paese al mondo - dopo gli Stati Uniti - per il numero di aziende nel settore. Ormai molti dei programmi di incubazione sono co-finanziati dall'Israel Innovation Authority, oltre agli investitori privati, sia connazionali che stranieri. Le proteine alternative attraggono sempre più interesse anche tra gli scienziati dei più importanti istituti israeliani, portando significative collaborazioni tra industria e accademia, in modo da agevolare le opportunità di finanziamento. A fare da ponte tra tutti questi attori coinvolti è proprio il Gfi, che promuove l'accelerazione nello sviluppo delle proteine alternative, coordinando investitori, aziende avviate, startup, scienziati e organismi governativi, al fine di ridurre l'impatto ambientale del sistema alimentare non solo locale ma mondiale, con lo scopo di prevenire il rischio di diffusione di pandemie zoonotiche e combattere la fame in molte aree del globo. Ad oggi il Gfi ha già conferito sette premi di "open-research" nel ramo delle proteine alternative: un programma di sovvenzioni per promuovere la ricerca competitiva e all'avanguardia con accesso aperto in tutto il mondo: «Il nostro goal è rendere il pianeta un posto migliore, attraverso una scelta attenta dei prodotti alimentari - conclude Goldstein -. Israele sta facendo del suo meglio per aiutare chi vuole raggiungere questo obiettivo assieme a noi».

"In Israele le startup si scoprono 'circolari' "

La chiamano Startup Nation perché è la nazione con la più alta percentuale di startup pro-capite e il cui governo contribuisce in modo sostanziale allo sviluppo dell'innovazione e delI'hi-tech. Non sorprende che negli ultimi anni stia indirizzando parte dei propri investimenti nell'economia circolare, a cui è stato dedicato anche un insegnamento apposito presso l'Afeka Academic College of Engineering di Tel Aviv. Avi Blau, responsabile del Corso, nonché consulente governativo per lo sviluppo di questo nuovo settore in espansione, ci racconta che sono tre i progetti principali a cui Israele, assieme anche ad altri partner stranieri, sta dedicando le proprie risorse. Nell'Imminente, l'Istituto per cui insegna, in collaborazione con la Camera del Commercio IsraeleAmerica, ha creato un programma internazionale per connettere imprese israeliane (da multinazionali a compagnie di bandiera, fino ad aziende a conduzione familiare) con circular innovators e circular designer provenienti da tutto il mondo, al fine di adottare competenze specifiche già sviluppate all'estero e adattarle alle esigenze locali. Sul medio termine, il ministero del Tesoro ha già messo in atto un progetto di industrial symbiosis con lo scopo di connettere settori diversi in modo che gli scarti degli uni possano essere al meglio sfruttati dagli altri, creando così una micro-economia su scala nazionale. Inoltre, sul lungo periodo, il Ministero dei Beni Ambientali sta sviluppando un piano di no waste strategy, da implementare entro il 2030, per garantire che l'intero sistema di rifiuti del Paese sia organizzato per potersi rigenerare da solo, garantendo l'ecosostenibilità come modus vivendi. Se l'esecutivo sta principalmente investendo sull'innovazione e sul flusso dei materiali tecnici, alcuni imprenditori privati, invece, si stanno specializzando su quelli biologici. Un esempio di successo, che ha già varcato i confini nazionali ottenendo numerosi investimenti stranieri, è sicuramente UBQ: «Sta per "ubiquitous": un materiale unico con un'infinita possibilità di adottarlo. E sia il nome della nostra compagnia che del nostro prodotto - spiega la vicepresidente Rachel Barr -. Si tratta di una "plastica organica" realizzata al 100% da rifiuti, di ogni sorta. Una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione i materiali di cui è composto vengono nuovamente reintrodotti nel ciclo economico e possono essere continuamente riutilizzati all'interno del ciclo produttivo generando ulteriore valore». Ciò che rende unica questa tecnologia carbon neutral è il fatto che, a differenza di altri prodotti simili, può essere combinata con qualsiasi altro tipo di plastica per poi essere nuovamente riciclata in un processo potenzialmente illimitato, garantendo una scalabilità senza precedenti e, di conseguenza, anche un notevole abbassamento dei costi che li rende competitivi su scala globale. A questo si aggiunge il significativo impatto sociale di questa tecnologia, poiché implementata in un kibbutz collocato a pochi chilometri da Gaza, Tsé elim, dove la maggior parte di chi ci lavora fa parte delle comunità beduine locali, da sempre oberate dal problema dei rifiuti. «Adottare UBQ in un contesto come quello della Striscia (uno dei luoghi con la più alta densità di popolazione al mondo per chilometro quadrato, ndr) sarebbe un sogno che diventa realtà - continua - permettendo di attivare circuiti virtuosi di riciclo e riuso». Barr sottolinea anche come la circular economy, in un contesto conflittuale come quello del Medio Oriente, oltre ad essere un eccellente modello di produzione e consumo, attento alla riduzione degli sprechi delle risorse naturali, porti con sé anche un enorme potenziale sul piano sociale e politico, in quanto basato su condivisione e cooperazione. In questa cornice si colloca un programma pilota, che sta prendendo piede proprio in questi mesi, con un duplice scopo: da un lato incentivare la collaborazione tra cittadini israeliani arabi ed ebrei, dall'altro accelerare, soprattutto all'interno della comunità araba, l'imprenditoria femminile, specie nel settore del tessile, dove sono molte le donne a essere già coinvolte. Si tratta del progetto guidato dall'AEJI (Association of Environmental Justice in Israel) e messo in piedi dalla Direttrice Esecutiva Carmit Lubanov, con il patrocinio di alcune istituzioni sul territorio, in particolare la municipalità di Um El Fachem, villaggio arabo della Galilea - assieme ad altri partner stranieri, tra cui l'Università belga di Gent Belgio - già coinvolta in questo pilot, poiché particolarmente interessata a questo modello economico di gender e local empowerment. Come spiega Lubanov, «la maggior parte delle Organizzazioni non governative che lavorano per il processo di pace si occupano quasi sempre della risoluzione del conflitto. Ma prima ancora è necessario creare ponti. Questo è uno degli scopi principali del nostro progetto, indipendente da fondi governativi, e volto, in modo pratico, ad incentivare dialogo, eguaglianza e partnership. Perché la terra in cui viviamo - prosegue - è la stessa per entrambe i popoli. E il rispetto degli uni verso gli altri deve cominciare dal rispetto per l'ambiente che ci circonda. In questo processo di presa di coscienza e valorizzazione delle risorse, le donne sono, e saranno sempre più, le figure chiave per questa svolta non solo economica, ma anche politica».

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