La chiamano Startup Nation perché è la nazione con la più alta percentuale di startup pro-capite e il cui governo contribuisce in modo sostanziale allo sviluppo dell'innovazione e delI'hi-tech. Non sorprende che negli ultimi anni stia indirizzando parte dei propri investimenti nell'economia circolare, a cui è stato dedicato anche un insegnamento apposito presso l'Afeka Academic College of Engineering di Tel Aviv. Avi Blau, responsabile del Corso, nonché consulente governativo per lo sviluppo di questo nuovo settore in espansione, ci racconta che sono tre i progetti principali a cui Israele, assieme anche ad altri partner stranieri, sta dedicando le proprie risorse. Nell'Imminente, l'Istituto per cui insegna, in collaborazione con la Camera del Commercio IsraeleAmerica, ha creato un programma internazionale per connettere imprese israeliane (da multinazionali a compagnie di bandiera, fino ad aziende a conduzione familiare) con circular innovators e circular designer provenienti da tutto il mondo, al fine di adottare competenze specifiche già sviluppate all'estero e adattarle alle esigenze locali. Sul medio termine, il ministero del Tesoro ha già messo in atto un progetto di industrial symbiosis con lo scopo di connettere settori diversi in modo che gli scarti degli uni possano essere al meglio sfruttati dagli altri, creando così una micro-economia su scala nazionale. Inoltre, sul lungo periodo, il Ministero dei Beni Ambientali sta sviluppando un piano di no waste strategy, da implementare entro il 2030, per garantire che l'intero sistema di rifiuti del Paese sia organizzato per potersi rigenerare da solo, garantendo l'ecosostenibilità come modus vivendi. Se l'esecutivo sta principalmente investendo sull'innovazione e sul flusso dei materiali tecnici, alcuni imprenditori privati, invece, si stanno specializzando su quelli biologici. Un esempio di successo, che ha già varcato i confini nazionali ottenendo numerosi investimenti stranieri, è sicuramente UBQ: «Sta per "ubiquitous": un materiale unico con un'infinita possibilità di adottarlo. E sia il nome della nostra compagnia che del nostro prodotto - spiega la vicepresidente Rachel Barr -. Si tratta di una "plastica organica" realizzata al 100% da rifiuti, di ogni sorta. Una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione i materiali di cui è composto vengono nuovamente reintrodotti nel ciclo economico e possono essere continuamente riutilizzati all'interno del ciclo produttivo generando ulteriore valore». Ciò che rende unica questa tecnologia carbon neutral è il fatto che, a differenza di altri prodotti simili, può essere combinata con qualsiasi altro tipo di plastica per poi essere nuovamente riciclata in un processo potenzialmente illimitato, garantendo una scalabilità senza precedenti e, di conseguenza, anche un notevole abbassamento dei costi che li rende competitivi su scala globale. A questo si aggiunge il significativo impatto sociale di questa tecnologia, poiché implementata in un kibbutz collocato a pochi chilometri da Gaza, Tsé elim, dove la maggior parte di chi ci lavora fa parte delle comunità beduine locali, da sempre oberate dal problema dei rifiuti. «Adottare UBQ in un contesto come quello della Striscia (uno dei luoghi con la più alta densità di popolazione al mondo per chilometro quadrato, ndr) sarebbe un sogno che diventa realtà - continua - permettendo di attivare circuiti virtuosi di riciclo e riuso». Barr sottolinea anche come la circular economy, in un contesto conflittuale come quello del Medio Oriente, oltre ad essere un eccellente modello di produzione e consumo, attento alla riduzione degli sprechi delle risorse naturali, porti con sé anche un enorme potenziale sul piano sociale e politico, in quanto basato su condivisione e cooperazione. In questa cornice si colloca un programma pilota, che sta prendendo piede proprio in questi mesi, con un duplice scopo: da un lato incentivare la collaborazione tra cittadini israeliani arabi ed ebrei, dall'altro accelerare, soprattutto all'interno della comunità araba, l'imprenditoria femminile, specie nel settore del tessile, dove sono molte le donne a essere già coinvolte. Si tratta del progetto guidato dall'AEJI (Association of Environmental Justice in Israel) e messo in piedi dalla Direttrice Esecutiva Carmit Lubanov, con il patrocinio di alcune istituzioni sul territorio, in particolare la municipalità di Um El Fachem, villaggio arabo della Galilea - assieme ad altri partner stranieri, tra cui l'Università belga di Gent Belgio - già coinvolta in questo pilot, poiché particolarmente interessata a questo modello economico di gender e local empowerment. Come spiega Lubanov, «la maggior parte delle Organizzazioni non governative che lavorano per il processo di pace si occupano quasi sempre della risoluzione del conflitto. Ma prima ancora è necessario creare ponti. Questo è uno degli scopi principali del nostro progetto, indipendente da fondi governativi, e volto, in modo pratico, ad incentivare dialogo, eguaglianza e partnership. Perché la terra in cui viviamo - prosegue - è la stessa per entrambe i popoli. E il rispetto degli uni verso gli altri deve cominciare dal rispetto per l'ambiente che ci circonda. In questo processo di presa di coscienza e valorizzazione delle risorse, le donne sono, e saranno sempre più, le figure chiave per questa svolta non solo economica, ma anche politica».
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