'Jewish Lives Matter', di Fiamma Nirenstein
Recensione di Diego Gabutti
Fiamma Nirenstein, Jewish Lives Matter. Diritti umani e antisemitismo, Giuntina 2021, pp. 128, 10,00 euro, eBook 6,99 euro.
Fiamma Nirenstein
Come nelle distopie di fantascienza, dove tutto gira storto e il disumanesimo passa per carità, Israele è una nazione che da decenni è sotto le bombe. Ci si sveglia in piena notte, l’urlo delle sirene, le esplosioni; si vestono e si prendono in braccio i bambini, poi si cerca un rifugio e s’aspetta il mattino. È una normalità da film catastrofico. Ai più sembra non soltanto normale ma giusto che gl’israeliani, o meglio gli ebrei, vivano sotto la costante minaccia delle sette apocalittiche che, con rare eccezioni, dominano il Medioriente. Bersaglio di missili, oggetto d’attentati, colpita da anatemi e condanne «morali» da parte delle istituzioni internazionali, comprese quelle occidentali e democratiche, Israele è la sola nazione al mondo alla quale viene negato il diritto d’esistere (è il «negazionismo» in fatto di Shoah allargato a tutto quel che è giudeo: niente diritti, nemmeno il terrificante privilegio della memoria dell’olocausto).
Con Jewish Lives Matter, il suo ultimo libro, Fiamma Nirenstein aggiorna le cronache dell’antisemitismo all’età di Hamas, delle ultime raffiche del marx-leninismo, degli ayatollah atomici, delle aggressioni agli ebrei nelle strade di Manhattan e delle capitali europee. Non è soltanto un brillante e indignato pamphlet, né soltanto uno straordinario reportage storico. È soprattutto un libro vissuto in prima persona, un diario di bordo, il racconto in presa diretta d’una catastrofe culturale: l’antisemitismo, cresciuto di nuovo a minaccia globale, che infuria in Medioriente e divora l’Occidente dall’interno. Terrorizzante, nel racconto di Nirenstein, è che ogni episodio distopico, per quanto inverosimile, sia più vero del vero: Israele accusato d’apartheid e di «nazismo», il diritto al terrorismo indiscriminato da parte dei «palestinesi» ufficialmente conclamato, i bambini usati sistematicamente come scudi umani da Hamas e allenati al martirio dalle loro stesse famiglie, l’assassino islamista d’una vecchia signora ebrea di Parigi mandato assolto dalla giuria perché «era drogato» e perché «in fondo aveva le sue ragioni», la grottesca pretesa che Israele non risponda al fuoco quand’è sotto attacco, l’invito a evitare prudentemente treccioline e kippah quando si cammina per strada in Canada e in Germania (in Germania!) È come se il lato oscuro della fantascienza, il 1984 di Orwell, o una storia paranoica di Philip K. Dick, avesse preso vita, e gli ebrei ci fossero finiti dentro, in Israele e fuori: giù per un «whormole», attraverso uno strappo nello spaziotempo, e dritti in un universo parallelo da incubo. Naturalmente è sempre stato così: l’antisemitismo, dall’accusa medievale del sangue ai pogrom russi e polacchi, dal caso Dreyfus ai forni nazisti, è stato sempre il tentativo di resettare il mondo facendone una distopia a misura di questa o quella setta apocalittica: l’Islam, il calvinismo, l’Inquisizione papista, il marxismo, oggi l’Islam fondamentalista e la cancel culture, dernier cri del pensiero totalitario.
Ciascuna di queste sette coltiva una particolare idea fissa, e ciascuna è in guerra contro ogni altra, ma hanno tutte qualcosa in comune: l’odio per il giudeo, per il cosmopolita, per l’«infiltrato» nelle comunità nazionali (e «di sangue») altrui. Chi sia di preciso l’ebreo, agli occhi degli antisemiti, non è mai stato chiaro: la sua identità è stata variamente modulata dai mangiagiudei secondo convenienza e capriccio (l’ebreo è un «pericoloso rivoluzionario bolscevico» per le destre politiche, per gl’islamisti è l’invasore delle terre sacre al Profeta, mentre è un sordido sfruttatore agli occhi delle sinistre, e per i fondamentalisti cristiani l’ebreo è sempre il killer che «ha ucciso Gesù»). Da parte di chi non lo condivide, o che non lo condivide ma pensa che «qualcosa avranno pur fatto per essere così detestati», l’odio per gli ebrei, è rubricato alla voce «odio per il diverso». Ma questo è annacquare il problema. Nel Novecento (e in questo nuovo millennio, non meno e forse più distopico dell’altro) non si odiano gli ebrei in quanto ebrei, perché non sono cristiani, o perché non sono musulmani. Con l’«odio per il diverso» si spiegano l’omofobia e il razzismo «antinegher» dei moderni politburò sovranisti-populisti. Ma con gli ebrei la «diversità» non c’entra, o c’entra poco. Se mai lo è stata, da un pezzo non è più questione di Torah o di candelabri a sette braccia. Gli ebrei, in età moderna, sono odiati in quanto bandiere dell’umanesimo, delle scienze avanzate, dei diritti civili, delle democrazie liberali superstiti. Hitler e Stalin, Arafat e Khomeini, l’intellighenzia «progressista»: sono questi i nemici novecenteschi degli ebrei e d’Israele, del Grande Satana, della Grande Sinagoga, del Panopticon «americano».
Agli ebrei non si perdona d’essere sopravvissuti, oltre che alle persecuzioni dell’età classica e del Medio Evo, anche ai ripetuti «reset» cannibali degli ultimi due secoli. Allo stesso modo non si perdona all’Occidente di non essersi arreso al modo di produzione schiavistico, ai balzi in avanti, alle rivoluzioni culturali e al delirio religioso delle satrapie asiatiche. Odio assoluto, ideologico, l’odio per gli ebrei può essere dichiarato e operante, come nei campi di sterminio nazisti o sotto la pioggia dei missili Made in Iran lanciati su Israele dalle bande terroristiche al potere in Palestina. Oppure può apparire mascherato da «critica costruttiva» (le incredibili risoluzioni surrealiste dell’Onu, l’invito a smetterla di «sterminare» i bambini palestinesi, l’appello a far fagotto e a «restituire» la terra). È il mondo alla rovescia delle religioni e delle ideologie salvifiche: la guerra è pace, l’odio è amore, l’ignoranza è forza, la libertà è schiavitù, il carnefice è la vittima, l’inferno è il paradiso. In circolazione fin dai tempi più remoti, antichi come e più delle piramidi, e benché con «tempi biblici» s’intendano proprio le disavventure delle loro tribù attraverso i millenni, gli ebrei sono odiati per la loro modernità. Vincono i Premi Nobel per la fisica, trasformano in terra fertile il deserto, hanno per stella polare la democrazia politica (il solo sistema sociale che garantisce la libertà a tutti, ebrei compresi) e bandiscono dalla vita pubblica il pregiudizio religioso (perché sanno per esperienza dove porta e cosa comporta).
Sulla piazza della storia fin dall’età del bronzo, gli ebrei sono oggi identificati, specie negli Stati Uniti delle presidenze estremiste, come imperialisti e suprematisti bianchi (anche se nell’età degli Übermenschen e di Auschwitz dare del «bianco», per di più «suprematista», a un ebreo suona come la più impudente delle barzellette). Non fosse che per sopravvivere alle persecuzioni gli ebrei sono spinti ad abbracciare le cause politicamente più nobili e a parteggiare per la scienza contro la superstizione. Non di meno, anzi proprio per questo, restano odiati e i missili continuano a piovere distopicamente su Israele, come racconta Fiamma Nirenstein con penna particolarmente felice. Ma è un odio che rende onore agli esecrati. Scrivevano Horkheimer e Adorno e nella Dialettica dell’illuminismo: «Gli ebrei sono oggi il gruppo che attira su di sé – teoricamente e di fatto – la volontà di distruzione che il falso ordine sociale genera spontaneamente. Essi vengono bollati dal male assoluto come il male assoluto. Così sono, di fatto, il popolo eletto».
Diego Gabutti
takinut3@gmail.com