Il secolo di Hitler e Stalin
Analisi di Diego Gabutti
Testata: Italia Oggi
Data: 05/10/2021
Pagina: 10
Autore: Diego Gabutti
Titolo: Hitler era meno furbo di Stalin
Riprendiamo da ITALIA OGGI di oggi 05/10/2021, a pag.10 con il titolo "Hitler era meno furbo di Stalin", il commento di Diego Gabutti.

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Diego Gabutti

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Adolf Hitler, Josif Stalin

Sotto Stalin non c'era russo con la testa sul collo che non volesse conservare la medesima lì dov'era: ben attaccata al tronco. In particolare, a sentire la testa in pericolo, erano gli uomini più prossimi ai centri di potere, come per esempio i capi dell'esercito, che Stalin Khan aveva sottoposto a decimazione già prima della guerra, non si è mai capito in ragione di quale machiavello, e che si sentirono più minacciati a guerra iniziata, quando i nazi avanzavano senza incontrare resistenza e l'Armata rossa non accennava a reagire. Forse fu il timore che al Padrone tornasse la voglia di rinnovare lo Stato maggiore con una delle sue sbrigative procedure di licenziamento a provocare la defezione di Andrej Andreevic Vlasov, il generale che nel 1941, nei primi giorni di guerra, aveva sbarrato la strada alla Wehrmacht, vietandole l'accesso a Mosca. Era stato un trionfo militare che gli guadagnò titoloni di giornale, baci e abbracci, tutto un medagliere dagli stivali al kepi, grandi evviva anche da Churchill e Roosevelt. Ma l'impresa successiva gli era andata buca: la II armata d'assalto, di cui era stato nominato comandante in capo, aveva ricevuto l'incarico di spezzare l'assedio di Leningrado, ma fu sbaragliata dai crucchi e Vlasov cadde prigioniero. Già capo istruttore dell'Accademia militare di Chongqing, in Cina, dove veniva addestrato l'esercito del Kuomintang, Vlasov era uno stalinista convinto, ma conosceva il suo idolo, e sapeva quanto fosse saggio guardarsi dalla sua ira. Se non sappiamo come andarono esattamente le cose dopo Leningrado, sappiamo che poche settimane più tardi lo stato maggiore hitleriano annunciò la nascita prima d'un Comitato russo di liberazione, poi anche d'un Esercito russo di liberazione, con Vlasov al comando. L'esercito collaborazionista era composto da prigionieri di guerra, volontari, disertori dell'Armata rossa, russi bianchi reclutati nelle capitali europee tra i nemici del bolscevismo di tutte le tendenze politiche. Come vent'anni prima le armate bianche, come l'esercito anarchico raccolto sotto la bandiera nera del movimento machnovista, la cosiddetta machnovscina, nei giorni del comunismo di guerra, anche l'Esercito russo di liberazione era un esercito politico anticomunista, disposto a pagare qualunque prezzo pur di farla finita col regime dei lager, dello stakanovismo e dei piani quinquennali. Al pari del generale Pëtr Nikolaevic Krasnov, l'atamano in esilio dal 1920 al quale Hitler affidò il comando d'un esercito collaborazionista cosacco, anche Vlasov era un alleato prezioso per la Wehrmacht, disposto com'era a marciare sotto la svastica, purché gliene venisse in cambio qualche vantaggio politico, per esempio il riconoscimento dell'autonomia delle nazioni via via liberate dal dominio bolscevico. Hitler, però, era un povero pazzo, e riteneva che «l'intera Slavonia» andasse ridotta in schiavitù. Se gli Übermenschen in divisa da SS avessero permesso alle nazionali passate sotto il loro dominio di costituirsi in repubbliche autonome sotto l'egida del «Reich millenario», la Germania avrebbe perso egualmente la guerra contro l'alleanza occidentale, ma almeno sarebbero stati risparmiati cinquant'anni di stalinismo e post stalinismo ai popoli dell'est europeo. Non andò così, e Vlasov si giocò l'anima invano. Generale di cartone, capo nominale di un esercito al quale non fu mai permesso di combattere, l'eroe della difesa di Mosca riuscì a compiere qualche viaggio di propaganda e a parlare di fronte a più o meno vaste platee anticomuniste, e anche queste scorrerie promozionali furono vane. «Questi viaggi» — racconta Solzenicyn — «rincuorarono e infiammarono la popolazione russa: sembrava veramente che potesse risorgere una Russia indipendente. Nei teatri stracolmi di Smolensk e Pskov, Vlasov parlò degli obiettivi del movimento di liberazione, dicendo apertamente che perla Russia il nazismo era inaccettabile, ma era impossibile abbattere il bolscevismo senza i tedeschi. Altrettanto apertamente gli veniva chiesto se era vero che i tedeschi avevano intenzione di trasformare la Russia in una colonia, e il popolo russo in bestiame da tiro.

Perché fino ad allora nessuno aveva detto che ne sarebbe stato della Russia dopo la guerra? Perché i tedeschi non autorizzavano un governo autonomo russo nelle regioni occupate? Vlasov rispondeva con imbarazzo, e con un ottimismo maggiore di quello che egli stesso poteva nutrire a quel tempo». Quanto al quartier generale tedesco, «replicò con l'ordine del feldmaresciallo Keitel: «In considerazione delle inqualificabili, impudenti affermazioni del generale Vlasov, prigioniero di guerra russo, durante la sua visita al gruppo settentrionale dell'esercito, compiuta senza l'autorizzazione del Führer e mia, ordino di ricondurlo immediatamente nel campo per i prigionieri di guerra». Irremovibilmente pazzo, Hitler sbagliò ogni mossa: «Mentre Stalin s'arrogava il ruolo di sommo difensore della patria, ripristinava le vecchie spalline russe e la Chiesa ortodossa, scioglieva il Comintern, Hitler lo aiutava per quanto poteva. Nel settembre del 1943 diede ordine di disarmare tutti i reparti volontari e spedirli nelle miniere di carbone, poi cambio idea e li fece trasferire sul Vallo atlantico, contro gli alleati», ormai quasi invincibili. Nel 1945, a guerra finita Vlasov s'arrese agli angloamericani insieme ad altri undici generali sovietici diventati collaborazionisti, sul suo esempio, nel corso della guerra. Consegnati a Stalin, furono tutti impiccati, com'è giusto e naturale; e il loro esercito da parata fu inghiottito dal Gulag. Anche l'atamano cosacco Pëtr Nikolaevio Krasnov, che non era mai stato cittadino sovietico, «bianco» e antibolscevico dal 1917, e che ai nuovi conoscenti si presentava con un «io sono russo, ortodosso e monarchico», fu consegnato a Stalin, che reclamava a gran voce traditori della patria da impiccare. Anche a Krasnov fu prontamente tirato il collo; idem ai pochi cosacchi che non riuscirono a imboscarsi in Occidente, soprattutto in Friuli, dove l'armata di Krasnov si arrese e smobilitò alla fine della guerra. Mai sazio, Stalin non fece favoritismi e, insieme ai collaborazionisti, condannò al Gulag anche tutti o quasi i prigionieri di guerra sovietici rientrati in Urss a guerra finita.

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