Riprendiamo dalla STAMPA - Torino di oggi, 25/09/2021, a pag.56, con il titolo 'Sono un cameriere d'amore la costruzione della famiglia è al centro della mia narrativa' l'intervista di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
Eshkol Nevo
L’intervista ha luogo in un taxi. Queste giornate italiane di Eshkol Nevo sono molto dense di incontri e momenti. L'autore di «Tre Piani», il romanzo da cui è tratto l'ultimo film di Nanni Moretti, è radioso: «La pandemia, l'essere rinchiusi in casa, qui come in Israele, mi ha fatto sentire l'urgenza di ascoltare e scrivere storie. È qualcosa di cui abbiamo bisogno, davvero. Ho scritto un romanzo, in quei mesi, anche se non ne avevo intenzione. Poi c'è stata la nostalgia di quel che stavamo perdendo. Quanto mi mancavano i viaggi in Italia: esiste, come si dice in inglese, la homesick, ebbene io ero Italysick. Sono molto contento di essere tornato qui». Nel corso del breve tragitto in auto lo sguardo di Eshkol Nevo incontra due volte la locandina del film, in uscita nelle sale proprio in questi giorni.
La copertina (Neri Pozza ed.)
Che effetto fa vedere i suoi personaggi nei volti degli attori? «Mi emoziona, devo dire. Mi sento privilegiato, come scrittore. "Tre piani" ha vissuto già tre vite: la prima, quella del libro in ebraico, la lingua in cui l'ho scritto. La seconda, la vita del libro in traduzione italiana. E ancora, dentro il film. Moretti ha saputo dare al film tutta l'ambivalenza insita nella vita dei miei personaggi, che si rispecchia nella percezione che il lettore, e ora lo spettatore, ricava. Io mi innamoro di tutti i miei personaggi, ma vedo anche in loro le contraddizioni, del carattere di ognuno di loro. E della realtà. Di quelli di questo libro devo ammettere che mi sono innamorato un poco meno del solito, perché qui è diverso: le storie di "Tre Piani" mettono a nudo tanto la normalità quanto i vizi, banali o tragici, delle loro storie. Non sono famiglie disfunzionali, quelle che descrivo, ma tutte dense di dolore, distanze, mancanze».
È una coincidenza forse non casuale, il fatto che il lancio del film e questo suo ritorno in Italia coincidano con la festa ebraica di Sukkot, cioè delle «capanne», che rievoca l'erranza dei figli di Israele nel deserto e impone ai fedeli di passare gran parte della giornata non fra le mura di casa e sotto un tetto, bensì in una capanna di frasche costruita appositamente, sotto la volta del cielo. A memoria della inevitabile provvisorietà di tutto, e di noi. «Tre piani» racconta anche questo, un poco come «La vita: istruzioni per l'uso» di Georges Perec. La casa è qui come sventrata, messa a nudo, resa trasparente, per raccontare le storie che vi accadono... «Dov'è la vera casa? In fondo senti la casa soprattutto quando ne sei lontano. Non è la casa fisica che mi interessa, personalmente e come autore. È, piuttosto la ricerca della felicità, dentro casa. Come si costruisce la famiglia, di quali segreti ha bisogno, perché i segreti sono indispensabili. Allora, io vedo "Tre Piani", e la casa di questo romanzo, come una sorta di confessionale. Noi ebrei non l'abbiamo, il confessionale. Ma io penso che non sia necessaria la presenza del prete e dei riti cattolici, per questo atto così umano: qui i miei personaggi si confessano lungo tutto il romanzo. Raccontano e si raccontano. È questa la funzione essenziale della casa, in fondo».
Nei suoi romanzi precedenti, da «Nostalgia» a «La Simmetria dei Desideri» - con l'eccezione de «L'intervista» che ha scritto come in una pausa dallo storytelling, nel senso letterale della parola - esplora la condizione di coppia, l'amicizia, i legami più stretti. Qui al centro sta la famiglia, nel bene e nel male. È una scelta stilistica o risponde all'idea che la famiglia stia al cuore della socialità umana? «Diciamo prima di tutto che è una questione personale. In questi anni ho messo su famiglia (Nevo qui sorride e conia un verbo ebraico nella forma riflessiva/passiva che alla lettera suona più o meno come "mi sono familiato", "sono diventato parte di una famiglia"). In questi ultimi tre mesi, ad esempio, ho vissuto solo per e nella famiglia, tutto per mia moglie e le mie tre figlie. Sono diventato, come dire "cameriere d'amore". Certo, questa struttura sociale e affettiva sta al centro della mia narrativa. E questo spiega probabilmente il grande successo dei miei libri qui in Italia. Perché israeliani e italiani hanno lo stesso senso profondo della famiglia, dell'essere famiglia. In questo senso, ad esempio, gli Stati Uniti sono davvero un altro mondo. Noi, invece, siamo molto simili».
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