Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 24/09/2021, a pag.49 con il titolo 'Fantasia sì complotti no' l'intervista di Lara Crinò.
Lara Crinò
Eshkol Nevo
Eshkol Nevo sorseggia un caffè, e insieme un’acqua tonica, nel bar di un albergo di Roma dietro via del Corso. Ha l’aria rilassata e sorridente. Per le vie della città sono apparsi i cartelloni di Tre piani , il film di Nanni Moretti, appena uscito nelle sale italiane, tratto dal suo romanzo omonimo edito da Neri Pozza, e questo gli ha dato l’occasione per tornare in Italia. Ricominciare a viaggiare, dice, è la cosa più bella, perché vivendo in un paese piccolo come Israele la chiusura dei confini a causa del Covid è stata un’esperienza claustrofobica. Mentre si indica con un dito la spalla, e sottolinea di aver già fatto il terzo richiamo del vaccino, ammette di sentirsi ancora, come tutti, «con la speranza, l’euforia ma anche l’incertezza di una situazione che è migliorata ma che non ci siamo ancora lasciati alle spalle». In queste vacanze romane, racconta, mentre passava da piazza del Popolo ha assistito a una manifestazione no-vax. «Mi sono fermato a parlare con uno dei manifestanti, volevo capire meglio. Mi ha chiesto: "Sei israeliano?". Poi ha aggiunto, riferendosi al vaccino: "Quindi sei un esperimento". Gli ho risposto: "Un esperimento? Sì, e allora? L’esperimento è riuscito, sta andando bene"».
La copertina (Neri Pozza ed.)
Israele è stato capofila nella vaccinazione di massa: tutto il mondo da oltre un anno rivolge lo sguardo al suo Paese per capire come affrontare questa malattia sconosciuta. «Non so esattamente perché sia accaduto. Posso ipotizzare due fattori: il primo è l’attaccamento alla vita degli israeliani, il secondo la nostra propensione verso il nuovo. Al di là di tutto quello che si dice sulla start up nation , eravamo pronti a rischiare per ricominciare a vivere».
E i complottisti? Quella frangia di persone che, in Israele come in Italia, è chiusa in un’altra visione della realtà? «Non posso giudicare chi cade in questa spirale cospirazionista, non vivo in mezzo a loro, non riesco davvero a entrare nella loro testa. Posso dire quello che ho visto succedere in questi lunghi mesi, durante i lockdown e nei momenti di riapertura. Insegno scrittura creativa, ho continuato anche durante la pandemia, facendo lezione ai miei studenti su Zoom. Mi sono accorto, attraverso lo schermo, di come diventavano pallidi, quasi spenti quando erano costretti a stare chiusi in casa, poi li ho osservati quando siamo tornati alle lezioni in presenza».
E che cosa è avvenuto? «Le prime volte erano strani, impacciati, diffidenti, distaccati. Poi hanno ricominciato a sorridere, a scherzare tra loro. Credo che la chiave sia qui, nel recupero dell’empatia. Un esercizio che dobbiamo fare tutti. Israeliani e italiani sono molto simili da questo punto di vista: abbiamo un gran bisogno, un grande desiderio di essere vicini agli altri».
La solitudine è il nodo centrale. Anche nel suo "Tre piani". È ambientato in un palazzo in cui ogni appartamento isola le famiglie e gli individui: fa pensare a ciò che è accaduto durante la pandemia, e ora c’è chi ora non si fida più di nulla e di nessuno. «Questa è la magia dei libri: restano, e a seconda del momento in cui li leggi ci trovi dentro qualcosa di diverso; la realtà cambia, e i libri cambiano insieme a lei».
In che senso? «Ho scritto un articolo sul festival di Cannes e il lancio del film di Moretti, e uno dei titoli che volevo usare, non ricordo se poi l’ho usato davvero, era "una perfetta storia post-Covid". Perché è vero che il punto di partenza è la solitudine, ma è vero anche che tutti cercano di riconnettersi agli altri. Dopo il distanziamento, questa stagione incerta ci chiede di tirare fuori nuove risorse, di cercare nuovi modi di avvicinarci agli altri, di usare la nostra immaginazione».
Empatia e immaginazione sono la cura spirituale per questo tempo? «Mi era capitato in passato, ma mai con la frequenza di adesso, che degli sconosciuti mi contattassero chiedendomi di ascoltare la loro storia. Talvolta li incontro: hanno una vera urgenza, mi svelano le loro vite. Ne L’ultima intervista , il romanzo che ho pubblicato prima dell’arrivo del virus, il protagonista è uno scrittore che sembra averne abbastanza del suo mestiere; forse anche io ero arrivato a questo punto».
Voleva smettere? «Sì, ma poi ciò che è accaduto in questi mesi mi ha fatto sentire la necessità delle storie, come lettore e come storyteller. E così ho scritto un libro un po’ diverso, con una forte struttura narrativa, quasi un thriller: in Italia arriverà penso l’anno prossimo, e ha che fare con la scomparsa di una ragazza. Ci sono i social, c’è internet, ma c’è, ancora una volta, il bisogno di intimità e relazione degli esseri umani al di là del virtuale. E ci sono le cose che mi mancavano di più mentre scrivevo: la musica, gli incontri. Scriviamo spesso non di ciò che c’è, ma ci di ciò che ci manca».
Le relazioni familiari e l’amore di coppia nei suoi libri sono essenziali. Ma anche pieni di non detti, rivalità, frustrazioni. La pandemia ha esacerbato anche questo? «Sicuramente ha avuto un forte impatto sulle coppie: molte stanno divorziando ora, non hanno retto all’urto. Una scrittrice israeliana che conosco ha detto: "Mi sembra che il mio matrimonio sia durato cento anni, invece che quindici. E cento forse è abbastanza"».
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