Naftali Bennett, Joe Biden
Caro direttore,
dopo un decennio di stallo, primi segnali importanti di novità giungono dal Medio Oriente. Prima l’incontro tra il presidente palestinese Abu Mazen e il ministro della Difesa israeliano Gantz. Poi la presentazione da parte del ministro degli Esteri israeliano Lapid di un piano per la ricostruzione economica e sociale di Gaza. E infine l’incontro a Sharm el-Sheikh tra il presidente egiziano Al Sisi e il primo ministro israeliano Bennett, a dieci anni dall’ultimo vertice israelo-egiziano. E il governo israeliano ha approvato la costruzione in Cisgiordania di 900 unità abitative per la popolazione palestinese. Atti che cadono a un anno dagli Accordi di Abramo sottoscritti da Israele con Emirati Arabi Uniti e Bahrein. A cui sono seguite nuove relazioni di Israele con Marocco e Sudan. Insomma, le cose iniziano a muoversi e si può apprezzare il carattere di svolta che ha avuto la formazione di una nuova maggioranza politica che segna una discontinuità con Netanyahu e Likud. Discontinuità sottolineata anche dalla elezione a presidente di Israele di Isaac Herzog, un leader di netto profilo progressista. Si tratta di primi atti e una ripresa di un percorso negoziale tra israeliani e palestinesi non è ancora all’ordine del giorno. Le ferite prodotte in entrambi i campi dalla crisi di maggio sono ancora aperte; le politiche perseguite per anni da Netanyahu — l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, la giudeizzazione di Gerusalemme, il tentativo di annettere la Valle del Giordano — hanno scavato un solco di diffidenza; alla fragilità di Abu Mazen, indebolito anche dalle divisioni in Al Fatah, si contrappone la crescita del radicalismo di Hamas — che nello Statuto preconizza la distruzione di Israele — suscitando inquietudine nella società israeliana; la nuova maggioranza di governo israeliana comprende partiti di sinistra, centro e destra, laici e religiosi, che esprimono diversità di vedute sulla soluzione della questione palestinese.
Il contesto è ancora condizionato dai conflitti di questi anni. Ma proprio per questo non vanno sprecate le finestre di opportunità che si possono aprire, chiamando in causa la responsabilità della comunità internazionale. A giugno — quando i razzi di Hamas cadevano sulle case israeliane e Gaza subiva la reazione militare di Israele — la diplomazia internazionale si mobilitò per far tacere le armi e imporre il cessate il fuoco. Seguirono alcuni atti dell’amministrazione americana, con la visita del Segretario di Stato Blinken, l’annuncio dell’apertura del Consolato Usa a Gerusalemme Est e l’impegno a concorrere alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte di Gaza. Via via però l’attenzione si è spenta, anche per l’emergere di altre crisi e il precipitare della vicenda afghana. Le ultime novità offrono uno spazio di iniziativa, sollecitando a rimettere in moto il Quartetto Onu-Usa-Ue-Russia, costituito anni fa proprio come gruppo di contatto capace di promuovere una ripresa di dialogo tra Israele e palestinesi per giungere a una soluzione di pace e stabilità capace di soddisfare le legittime aspirazioni di entrambi i popoli. D’altra parte è bene ricordare i trent’anni dalla Conferenza internazionale per la pace in Medio Oriente (Madrid, 1991) che segnò, per la prima volta dal 1948, il reciproco riconoscimento tra israeliani e palestinesi, avviando quel percorso negoziale che in soli due anni condusse ai colloqui di Oslo e agli accordi di Washington, sanciti dalla stretta di mano tra Rabin e Arafat sotto lo sguardo garante di Clinton. Quella volontà di pace si è affievolita, soffocata dal riemergere di pregiudizi, ostilità e conflitti. È tempo di riprendere l’unico cammino di pace possibile: dialogo e negoziato. Farlo compete in primo luogo alle parti in causa, ma è necessaria un’azione della comunità internazionale per incoraggiare e accompagnare israeliani e palestinesi in quel cammino.
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