Riprendiamo dal CORRIERE FIORENTINO del 18/09/2021, a pag. 1, l'articolo "Il giardino di Wanda e Alberto" di Franco Camarlinghi.
Wanda Lattes, Alberto Nierenstein
I fiorentini sono dei criticoni per carattere. Soprattutto quelli, quasi tutti, che non hanno un grande avvenire dietro le spalle (come definì il suo passato Vittorio Gassman): quando invecchiano si lamentano in particolare della loro città e delle delusioni che ha dato loro. Anche il sottoscritto fa parte della categoria di quelli che il grande avvenire alle spalle se lo sognano e che, se capita, non si risparmiano nell’esercitare il mestiere della critica alla Firenze attuale e a quella di un tempo trascorso. Questi giorni, però, inducono a un po’ di ottimismo: si tratta della memoria di Alberto Nirenstein e di Wanda Lattes, ai quali viene dedicato un giardino, un angolo prezioso della vecchia Firenze a due passi da Santa Croce: uniti prima nella vita e ora nel ricordo. Le vite di Wanda e Alberto rispecchiano in maniera esemplare il secolo scorso, le aspirazioni, le conquiste di vita e di cultura, ma in primo luogo le tragedie a cui l’Europa fu sottoposta con innanzi a ogni altra quella del popolo ebraico, dell’olocausto. Wanda, fiorentina di nascita, visse il destino terribile delle famiglie ebraiche distrutte dalla ferocia nazista, ma non si arrese mai e giovanissima combatté nella resistenza fiorentina contro l’occupazione tedesca e la ferocia fascista. Alberto era riuscito appena in tempo, prima dell’invasione della Polonia da parte di Hitler, a rientrare in Palestina dove era emigrato. La sua famiglia rimasta in Polonia fu distrutta e lui venne, con la Brigata ebraica, a combattere per la nostra libertà: a Firenze incontrò Wanda e a Firenze rimase, divenendone poi un cittadino illustre.
Il giardino
Di storia, di quella che lascia il segno, Alberto e Wanda ne avevano vissuto e fatta abbastanza già alla fine della guerra e partecipavano alla ricostruzione dell’Italia e dell’Europa. Costruivano una grande famiglia che, alla fine, con le tre loro figlie sarebbe stata come una mano con le sue cinque dita (è il titolo di un bellissimo libro che tutti insieme scrissero qualche anno fa): ma la storia non si fermò. Alla fine degli anni ’40 Alberto tornò a Varsavia per recuperare i documenti che un gruppo di intellettuali e altri cittadini rinchiusi nel ghetto di Varsavia avevano raccolto e poi nascosto sotto le macerie e che raccontavano la vita quotidiana di 450000 ebrei, di cui sopravvissero solo poche diecine. Doveva restare pochi giorni e rientrare a Firenze: tornò dopo quattro anni e la sua famiglia non seppe niente di lui in tutto quel tempo. Così, tanto per ricordare ai più giovani che cosa è stato il mondo non molto tempo fa: ad Alberto, a Wanda toccò fare i conti anche con il comunismo, come se non gli fosse bastato quello che avevano vissuto fino ad allora. Poi, finalmente, venne un tempo diverso, quello di diventare protagonisti della vita culturale e sociale di Firenze. Conobbi la famiglia Nirenstein alla fine degli anni ’60, in ogni senso una famiglia che dava l’idea di essere speciale e infatti lo era e tale appariva a tutti quelli che avevano la fortuna di frequentarla. Wanda era la giornalista più nota della città e anche se a quel tempo molti di noi giovani di sinistra eravamo avversi alla Nazione, giudicavamo l’importanza di un avvenimento dalla sua presenza o assenza. Aveva fatto una grande scuola di giornalismo soprattutto con Romano Bilenchi al Nuovo Corriere e per lei il suo mestiere era una missione, come si sarebbe visto poi con la collaborazione al Corriere della Sera. Il modo veramente speciale con cui partecipò alla fondazione e alla crescita del Corriere Fiorentino, dimostrano che quella missione lei la vedeva in particolare legata a Firenze, alla sua storia artistica e culturale, a quello che ancora, in età avanzata, poteva fare per la sua città. Di Alberto sapevamo meno, ma una cosa sapevamo e sarebbe bastato quello a riconoscerlo come cittadino illustre della città dove era arrivato in armi e in cui era restato come intellettuale e scrittore in stretto e quotidiano rapporto con Israele. Alberot era riuscito a trovare e a poter lavorare sui documenti del ghetto di Varsavia: gli erano costati quattro anni nella Polonia stalinista, ma Einaudi nel 1958 pubblicò “Ricorda cosa ti ha fatto Amalek”, un libro che ancora oggi non dovrebbe mancare in ogni casa dove si voglia capire il passato per vivere nel presente. Amalek, feroce persecutore degli ebrei in fuga dall’Egitto, gliene aveva fatte abbastanza anche ad Alberto e a Wanda, ma infine dette il titolo ad un volume che si ristampa ancora oggi.
Torno indietro nei decenni di consuetudine con l’ultimo piano di Via Cocchi 45 e mi rendo conto di quanto significativa era l’atmosfera che si respirava in quella casa. C’era la dedizione alle questioni che riguardavano Firenze da parte di Wanda che non avevano mai, però, quel sapore di provincialismo e di retorica che opprime ancora oggi Firenze. Alberto rappresentava come pochi altri un’apertura verso una vicenda europea che pochi altri popoli come gli ebrei polacchi possono far capire; rappresentava poi un legame con Israele e con la tradizione socialista di quel paese così centrale negli equilibri del mondo. Insomma, entrare in Via Cocchi significava abbandonare il conformismo fiorentino, ritrovare la radice cosmopolita di Firenze, capire la ricchezza culturale dell’ebraismo, imparare ad amare Israele. Tutto questo era del resto visibile nella vita sociale che Wanda sapeva organizzare in maniera semplice ed elegante nella sua casa: il meglio della cultura fiorentina e non solo si riuniva nel suo soggiorno e non per passare il tempo e basta. Non sarebbe possibile far intendere le cose dette se non si parlasse di ciò che inoltre faceva così ricca di intelligenza e di fascino la famiglia di Wanda e Alberto: Fiamma, Susanna e Simona che tutte, del resto, hanno continuato e continuano a essere, come i loro genitori, colte, influenti, internazionali e alla fine ancora fiorentine. Conviene concludere questo ricordo con la scelta felice del Comune di Firenze di dedicare ad Alberto e a Wanda il giardino di Borgo Allegri, perché si tratta di un luogo che meglio di tanti altri può rappresentare un omaggio di popolo a due persone che lo meritano per tanti motivi oltre quelli che ho cercato di descrivere. Per chi è nato e vissuto da quelle parti, ma anche per Wanda e Alberto che amavano quella parte di Firenze, “Borgallegri” era la via più popolare di Santa Croce ed è bello pensare che uno spazio di quella via carica di storia, i fiorentini l’abbiano dedicato a due loro concittadini ebrei che la storia l’hanno vissuta e fatta.
Per inviare al Corriere Fiorentino la propria opinione opinione, cliccare sulla e-mail sottostante
cronaca@corrierefiorentino.it