Riprendiamo da AVVENIRE - Agorà di oggi, 17/09/2021, a pag.2, con il titolo "Dario Calimani e la Shoah, dimenticare è un lusso che non possiamo permetterci" il commento di Massimo Giuliani.
Massimo Giuliani
La copertina (Giuntina ed.)
Ingenuo chi crede che sulla memoria (della Shoah) sia già stato detto tutto il dicibile. Che si sia "per" il dovere morale di ricordare, a dispetto della retorica, eppure "contro" quella stessa retorica, che rischia di offuscare, se non di ottundere, il senso bruciante delle ferite della storia, quel che siamo oggi in Europa è ancora largamente costruito sulle ceneri del "secolo breve", delle sue guerre mondiali e dei suoi totalitarismi razzisti e liberticidi. Per gli ebrei è stato un secolo «di amore e di tenebra», per citare Amos Oz; ma per chi è stato travolto personalmente dalle persecuzioni razziali e dalle deportazioni ad Auschwitz è stato un secolo di sofferenza senza fine. Nascere ebrei nel 1946 ha significato anzitutto essere figli di sopravvissuti, e dunque a sua volta dei sopravvissuti. Terza generazione, si dice (ché il male, secondo il dettato biblico, contamina persino gli innocenti pronipoti, non solo dal lato di chi il male, il dolore, lo ha inflitto ma anche, anzi soprattutto, dal lato di chi lo ha subito). Passa qualche brivido nella schiena a leggere le riflessioni di uno di questi figli di sopravvissuti, con due nonni deportati e uccisi nei Lager nazisti in quanto ebrei. Non è una testimonianza, è davvero una riflessione introspettiva piegata, o meglio piagata, dall'impossibilità di non ricordare, dall'insorgere dei ricordi e dal ritorno dei silenzi dell'infanzia, e delle mille domande, con anche qualche punto esclamativo davanti a ciò su cui, chi ha vissuto certe cose in prima persona, non può transigere. Sto parlando del libro di Dario Calimani, dal titolo L'ebreo in bilico (Giuntina), nel quale l'intellettuale veneziano, anglista, e oggi presidente della comunità ebraica lagunare, fa i conti con la sua ebraicità segnata da quelle memorie familiari, a partire dalla fuga in Svizzera dei suoi genitori e da quell'esilio (che non fu certo una vacanza tra le montagne), e ritmata dagli interrogativi su cosa abbia significato per lui essere figlio di sopravvissuti e nipote di vittime della Shoah, un ebreo sempre "in bilico" tra quel che si vorrebbe rimuovere e quel che non si può obliare. Storia di un italiano, storia di un europeo della seconda metà del Novecento, questa, che si legge appunto "a metà" tra flusso di coscienza privata e senso collettivo della storia perché, in fondo, la memoria altro non è che il fragile ponticello che unisce le due sponde, le vicende intime e la Storia hegeliana, l'io familiare e il noi sociale, politico, pubblico.
Dario Calimani
Chi non avesse ancora compreso quanto fragile ma necessario sia quel ponte, deve leggere il libro di Dario Calimani, pacato ma esigente, razionale e a un tempo appassionata Un tempo disperatamente in bisogno di capire se stesso. Le domande di Calimani sono un perfetto punto di partenza. E poi c'è, naturalmente, la testimonianza pubblica, cui in Italia ha dato voce uno scrittore come Primo Levi. Anche qui: è possibile dire qualcosa di nuovo su Levi? Non è un azzardo, o un'irriverenza, rileggerlo cercando di scoprirvi nuove dimensioni, o nuovi angoli, del suo severo ammonimento a "considerare" cosa sia stata l'umanità finita nel buco nero dei Lager? Ci ha privato un altro fine intellettuale, Luca De Angelis, già docente a Trento e Trieste, in un volume sempre edito da Giuntina dal titolo Un grido vero. Riflessioni su Primo Levi. Se in Calimani quasi non ci sono grandi citazioni, qui si tratta di una quasi ininterrotta catena di passi riportati, di rimandi, di folgoranti versi poetici tesi a documentare che l'elaborazione di "quel che è stato" costituisce un filo unificante dell'identità culturale europea, il "noi" di cui ho scritta La memoria non è un lusso, come qualcuno potrebbe insinuare, è una funzione vitale; e che abbia dei ministri è quasi altrettanto necessario. Questi ministri, simbolici, sono gli scrittori, i poeti, forse anche filosofi come Agnes Heller, per la quale «più si tenta di spiegare l'Olocausto e meno si riesce a comprenderlo». Ma spiegare l'Olocausto è parte integrante del nostro bisogno di memoria, al netto di tutte le retoriche possibili e al di là di tutti i riduzionismi di chi trova insopportabile continuare a ricordare. Confesso di non amare il termine "shoahità" che De Angelis adotta, prendendolo da Elie Wiesel, per dire la complessità di contenuti e di linguaggio di chi ha narrato quell'orribile esperienza. E un termine brutto, da scrivere come da udire. Nondimeno, il libro è un intelligente percorso nell'opera leviana, che mette il nostro maggior scrittore della Shoah sullo sfondo letterario e filosofico del secolo breve, segnato da un amore-odio per Paul Celan e per «san Franz di Praga» ossia Kafka, in dialettica con le sentenze di Adorno e di Günther Anders, in dialogo diretto con Philip Roth e indiretto con Imre Kertész e con lo stesso Elie Wiesel.
L'orizzonte di Levi non mai stato "solo" locale, nazionale. II grido che De Angelis coglie ed evidenzia nell'opera apparentemente pacificata di Levi è un laico comandamento a ricordare per non ripetere l'orrore, a salvaguardare quell'imprint dell'etica umana, a vegliare sulla non trapassabilità della soglia che marca il confine con l'abisso del degrado dell'umano. In queste riflessioni la filigrana della testimonianza dello scrittore ebreo torinese, scomparso nel 1987, si offre come un anticipo delle testimonianze di Liliana Segre, di Sami Modiano, di Edith Bruck - i superstiti ancora viventi - che sono tornati dopo aver guardato in faccia l'anguicrinita Gorgone, di cui parla Levi, senza esserne rimasti pietrificati. Anzi, dopo un comprensibile silenzio iniziale, hanno raccolto di chi è stato pietrificato o incenerito e hanno presidiato, per il nuovo secolo, il senso di quel che Auschwitz è stato. Due libri molto diversi, che confermano che ricordare non è un lusso, semmai un lusso è dimenticare, ma non ce lo possiamo permettere.
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