Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 15/09/2021, a pag.III con il titolo "Hezbollah senza elettricità" l'analisi di Rolla Scolari.
Rolla Scolari
La vignetta di Dry Bones: il Libano ha lasciato a Hezbollah la gestione della sicurezza al porto di Beirut: ecco i risultati
La vista da Beit Mery è sorprendente. Durante le sere d'estate, le terrazze dei ristoranti del piccolo villaggio in collina sono affollate. Beirut è laggiù, con le sue luci colorate che si accendono dove finisce la montagna e culminano nel bagliore intenso del porto. Oggi, quel porto non esiste quasi più, cancellato dall'esplosione di 2.700 tonnellate di nitrato d'ammonio e dalla negligenza politica, nell'agosto del 2020. La capitale libanese, ferita da quel trauma e umiliata da poteri incuranti, è quasi al buio. La crisi finanziaria e strutturale di un paese ormai fallito si è portata via persino la luce e ha spento le speranze. Così, sui social network e sui giornali locali si rincorrono le fotografie del buio, in cui Beirut è una macchia nera interrotta da qualche debole fiammella, simile a una città durante la Seconda guerra mondiale, quando per evitare i bombardamenti nemici era imposto l'oscuramento. La crisi dell'elettricità che in questi mesi vive il Libano è la somma di tutti i mali del paese: il buio è figlio della corruzione delle élite, dell'incompetenza burocratica, delle politiche settarie, del nepotismo, di decenni di cattiva gestione degli affari dello stato e della pubblica amministrazione. I tagli di corrente a Beirut e su tutto il territorio sono sempre più frequenti, sono sempre più prolungati. L'azienda statale Electricité du Liban garantisce due o tre ore di corrente al giorno. Restano 21 ore. Dodici circa sono coperte dall'utilizzo di generatori privati che funzionano a gasolio, un bene sempre più raro e caro, che alimenta il mercato nero, soprattutto ora che la Banca centrale sta tagliando i sussidi statali. Famiglie, negozi, commerci, ristoranti ma anche ospedali restano senza elettricità anche per più di otto ore. Le ripercussioni sul settore sanitario, industriale, alimentare, ma anche educativo - le scuole hanno subìto chiusure durante la pandemia e hanno dovuto far ricorso a quella che noi chiamiamo dad, affidando le lezioni a dispositivi elettronici - sono vastissime. Le turbine degli impianti di Deir Ammar, al nord, e Zahrani, al sud, che insieme forniscono circa il 40 per cento dell'elettricità nazionale, a luglio hanno smesso di funzionare per alcune ore. Il blackout in molte aree è stato totale. Le cause del buio, quelle immediate, sono legate alla crisi economica e finanziaria in cui il Libano è piombato nel 2019, una delle peggiori dell'ultimo secolo secondo la Banca mondiale. La produzione di energia avviene quasi totalmente attraverso combustibili fossili (sia il funzionamento di sette centrali elettriche sia quello dei generatori). Oggi però le casse dello stato sono vuote, manca valuta estera, la lira libanese ha perso il 90 per cento del suo valore: comprare olio combustibile e gasolio è diventata una sfida. Un recente studio dell'Università americana di Beirut spiega come il governo abbia milioni di dollari in fatture non saldate con le società che operano nelle centrali elettriche e con quella turca che dal 2013 gestisce due navicentrale al largo delle coste libanesi. La somma sarebbe impressionante: 335-340 milioni di dollari. Quella elettrica è una crisi antica in Libano. Le cause sono soprattutto politiche, come ci spiega Marc Ayoub, ricercatore in politiche energetiche all'Università americana. "La malagestione da parte della classe politica ci ha portati al collasso".
L'ultima volta che il paese ha avuto elettricità 24 su 24, dice, è stato alla fine degli anni Novanta, quando la domanda di energia elettrica era già maggiore rispetto all'offerta nazionale. "Questo divario è diventato più profondo negli anni Duemila, con la decisione del governo di cessare gli investimenti". Dal 1992, le spese del settore energetico, inclusi i sussidi per il gasolio dei generatori, ammonterebbero secondo lo studio dell'università a 40 miliardi di dollari, il 40 per cento circa del debito nazionale. La sede dell'azienda di stato, Électricité du Liban, è un brutto palazzone di una quindicina di piani al confine tra due quartieri di quella che era, prima del 2020, la spensierata vita notturna della capitale libanese. E' abbastanza imponente per essere un punto di riferimento nella lingua e nella topografia cittadine: "Incontriamoci a Électricité du Liban". Oggi, la facciata sfigurata dall'esplosione al porto, il palazzo è diventato luogo di ritrovo per chi vuole protestare contro un governo inesistente. Fino a sabato, infatti, il Libano non ha avuto un esecutivo per oltre un anno: nessuno per occuparsi della scivolata inesorabile verso gli abissi, di una crisi finanziaria ed economica senza precedenti, nessuno per discutere con le cancellerie straniere la possibilità di ricevere aiuti e donazioni. Il Fondo monetario internazionale è pronto con un piano, ma i suoi funzionari pretendono dalla classe politica libanese riforme strutturali. Quei soldi servirebbero anche per ricostruire il settore elettrico nazionale. Il piano esiste, ci dice Rony Karam, presidente della Lebanese Foundation for Renewable Energy: è già pronto da tempo, infatti, uno studio del National Council for Scientific Research e dell'Università americana di Beirut sull'utilizzo delle energie rinnovabili in Libano. La bozza di un altro documento della Banca mondiale, del 2020, spiega come il paese potrebbe raggiungere il 40 per cento della produzione di corrente elettrica attraverso energie rinnovabili. Manca però la volontà politica di portare avanti questo piano, dice Karam, perché "l'importazione di combustibile fossile nei decenni è stata una risorsa che ha versato denaro nelle casse dell'élite politica", come suggerisce anche un'inchiesta del quotidiano L'Orient le Jour, che ha studiato i contratti alla società turca Karpowership, quella delle navi-centrale.
Dal 2014 a oggi, l'accordo è costato al Libano 1,5 miliardi di dollari. Con la stessa somma il paese avrebbe potuto dotarsi di tre nuove centrali. E' lo stesso quotidiano a ricordare come nel 2013, in un fumetto prodotto dal ministero dell'Energia e intitolato "Il sogno di una nazione", l'allora ministro Gebran Bassil fosse ritratto a bordo di una futuristica metropolitana leggera in viaggio da nord verso la capitale, lungo la costa: sullo sfondo spiagge pubbliche ben tenute, centrali elettriche moderne. Lungo quella stessa costa ci sono invece una delle strade più trafficate del paese, stretta tra il mare e le montagne, un paio di vetuste centrali elettriche, cittadine sovraffollate in cui i tagli di corrente sono ancora più frequenti di quelli della capitale. L'uomo del fumetto, Gebran Bassil, genero di Michel Aoun, il presidente cristiano alleato del partito armato sciita Hezbollah, è tra gli uomini più odiati del Libano. Per molti, è il simbolo dei mali più profondi della società. Era dedicato a lui il ritornello più scandito dalle piazze in rivolta nell'ottobre 2019. Ed è contro di lui, contro la sua gestione del ministero dell'Energia, che si scagliano oggi in molti quando è sollevata la questione della cancellazione dei sussidi per il carburante. Da mesi, il gasolio per il funzionamento dei generatori scarseggia, assieme alla benzina per le automobili. Sono pochissimi i benzinai aperti e le code alle pompe durano ore. I partiti settari, che per decenni hanno ampliato la loro base di sostegno garantendo quei servizi che uno stato debole non forniva, oggi rischiano che quell'arma si rivolga loro contro. Così, la crisi del Libano colpisce anche il più potente di tutti i welfare state settari, quello di Hezbollah. Un po' ovunque, deputati e responsabili politici di qualsiasi gruppo diventano l'obiettivo di esplosioni di collera di cittadini esasperati dalla mancanza di elettricità per far funzionare condizionatori, frigoriferi, computer e telefoni, macchinari ospedalieri, agricoli e industriali. Alcuni siti e video postati sui social network hanno raccontato ad agosto di incidenti nei confronti di parlamentari di Hezbollah, l'attore politicamente e militarmente più forte sulla scena libanese. I funzionari del partito sono raramente criticati in pubblico e soltanto nell'ottobre del 2019, durante l'inedita stagione di proteste dal carattere anti settario, le manifestazioni hanno raggiunto per la prima volta le roccaforti meridionali del movimento, santuari fino ad allora inviolati dal dissenso interno. Una piccola folla, ha scritto il sito el Nashra, ha gridato insulti e tirato pietre contro l'abitazione del deputato di Hezbollah Anwar Jomaa nel villaggio di Ali Nahri, nella valle della Bekaa, dove la bandiera gialla con il pugno che stringe un Ak-47, simbolo del movimento sciita, è appesa a ogni palo della luce. I tagli di corrente hanno portato in strada giovani, nella periferia sud di Beirut, altra casa del Partito di Dio: hanno attaccato l'abitazione di un deputato di Hezbollah. La sua sarebbe stata l'unica finestra illuminata mentre l'intero quartiere di Burj el Brajneh era al buio.
Negli stessi giorni, secondo il quotidiano Nahar, membri di Hezbollah hanno dovuto cancellare interventi e visite in alcuni villaggi "amici", a causa dell'irrequietezza della loro stessa base. Oltre alle crepe interne, Hezbollah è accusato da mesi da personalità politiche rivali, come l'ex premier Saad Hariri, di bloccare la formazione del governo, con la sua pretesa di ministeri chiave. Il gruppo sciita filoiraniano ha ottenuto sabato, nel nuovo governo guidato da Najib Mikati, il fondamentale dicastero delle Finanze. Era ciò che voleva. Il ministero dell'Energia è andato agli alleati cristiani di Hezbollah, guidati dal presidente Aoun. E' anche per far fronte a queste pressioni interne che Hassan Nasrallah, leader del Partito di Dio, ha annunciato ad agosto l'invio da parte del principale finanziatore del gruppo, l'Iran, di due navi cariche di combustibile fossile, in violazione delle sanzioni internazionali imposte dagli Stati Uniti sui prodotti petroliferi di Teheran. Le imbarcazioni non sono per ora arrivate, potrebbero arrivare giovedì, ma la mossa di Nasrallah sembra aver accelerato in reazione un piano regionale, benedetto dagli Stati Uniti, per migliorare la situazione energetica libanese. Si sono incontrati a inizio settembre ad Amman i ministri dell'Energia giordano, libanese, egiziano e siriano per finalizzare i dettagli di un progetto che prevede l'invio di gas naturale egiziano in Libano per la produzione elettrica attraverso la Siria. Gli Stati Uniti, le cui sanzioni ricadono anche sui paesi che fanno affari con il regime di Damasco, hanno dato il loro consenso. Il buio del Libano potrebbe così avere un impatto sugli equilibri regionali: un simile accordo, infatti, come ricorda Rony Karam, della Lebanese Foundation for Renewable Energy, "può dare rinnovato potere al regime siriano, riconsegnandogli un elemento di influenza sul Libano". Espanderebbe anche il ruolo di paese esportatore di gas naturale dell'Egitto, e rimetterebbe in pista una Giordania acciaccata da anni di irrilevanza politica regionale. Il piano, che non rappresenta una soluzione a lungo termine per il Libano, come ricorda il ricercatore Marc Ayoub, non è di immediata implementazione: la Siria è infatti una nazione le cui infrastrutture sono danneggiate da dieci anni di guerra civile, e saranno necessari mesi di lavori prima che Beirut possa tornare alla luce. E non è detto che il Libano, con il crescere del malcontento sociale, abbia questo tempo a disposizione. Se secondo Rony Karam i libanesi oggi "sono troppi occupati a fare ore di fila alle pompe di benzina per tornare in strada a fare la rivoluzione", il paese colpito da un collasso strutturale, da una crisi economica e finanziaria, piegato dalla pandemia di Covid-19, e ancora ferito dalla devastante deflagrazione al porto sarebbe, come ha detto a luglio l'ex premier Hassan Diab, sul punto di un altro tipo di esplosione: quella sociale.
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