11 settembre, la lezione di Israele
Analisi di Fiamma Nirenstein
Testata: Il Giornale
Data: 11/09/2021
Pagina: 4
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: La lezione di Israele: la jihad non tratta

Riprendiamo dal GIORNALE - Speciale 11.09 di oggi, 11/09/2021, a pag. 4, l'analisi di Fiamma Nirenstein dal titolo "La lezione di Israele: la jihad non tratta".

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Fiamma Nirenstein

Nel settembre del 2001, mentre gli jihadisti di al Qaeda sequestravano gli aerei dell'American Airlines e dell'United Airlines che alle 7,59 dell'11 di settembre avrebbero dato fuoco al mondo sfracellando le Twin Towers, Israele era già in un bagno di sangue terrorista. Nessuno voleva elaborare la questione, pallide spiegazioni territoriali fornivano facili parametri al pensiero strategico occidentale. A Gilo, dove io vivevo e lavoravo, le giornate erano ritmate dagli scoppi dei missili che l'Intifada sparava da Betlemme su Gerusalemme. Intorno alla mezzanotte dell'11, due poliziotti furono uccisi a colpi di pistola in faccia; nei due giorni precedenti una decina di civili di ogni genere e età, da uno studente di 19 anni, a una maestra d'asilo di 24 anni a un medico di 47, più un centinaio di feriti, si unirono al parterre di vittime che avrebbero raggiunto il numero di circa 1500, più o meno la metà delle vittime delle Twin Towers. Israele fu una sorta di serra sperimentale del terrorismo suicida: questo rimase incompreso, mal interpretato e quindi ignorato dall'Occidente, e oggi, dopo il penoso e stravolto ritiro americano dall'Afghanistan, è ancora più evidente che questo rifiuto a capire sopravvive come un pericoloso fantasma. L'equivoco sul terrorismo anti-israeliano potrebbe risultare mortale per il mondo intero. L'undici di settembre si compì a seguito dell'incomprensione e nella disattenzione del mondo per tutta una serie di evidenti episodi che ne segnavano la preparazione, sia in Medio Oriente che in Europa che negli USA; i suoi frutti e il suo seguito fino alla presa del potere dell'Afghanistan da parte dei talebani seguitano ad essere coperti dalla patina dell'equivoco.

Appare davvero strano, ma è vero: dopo l'11 di settembre, si discusse dicendo anche che era colpa degli americani; che era possibile parlare coi terroristi; che le loro aspirazioni religiose e sociali sono trattabili, la loro visione della donna, dei dissidenti, degli infedeli... parte di una cultura diversa ma legittima. Lo si ripete oggi sui talebani, e su Hamas lo si è detto un milione di volte. Israele che prima negli anni della fondazione, poi via via attraverso gli anni, aveva subito attentati a migliaia come quello delle Olimpiadi di Monaco del 1972, assalti ai bambini nelle scuole, eccidi di vecchi sugli autobus, era già da tempo e resta una lampada accesa sulla necessità di capire, studiare per combattere il terrorismo, pena il conseguente pericolo per il mondo intero. Bibi Netanyahu nel 1995 in un suo libro sul terrorismo diceva agli USA: se non vi accorgete di quello che vi sta accadendo, presto vi ritroverete il World Trade Center spianato dal terrorismo. Una profezia? No, solo, una visione chiara della natura ideologica e politica, e non territoriale o sociale, del terrore. La storia di Israele prima e dopo l'11 di settembre, fa piazza pulita dell'idea che si possa placare l'appetito della Jihad proponendo scambi territoriali, finanziamenti e miglioramenti sociali appetibili, accesso alla tecnologia, e, (obiettivo cui Bush guardò come alla soluzione di tutti i mali) che la democrazia, la libertà, siano il nascosto obiettivo di ogni uomo. E che una volta realizzati lo redimeranno. Ma l'Uomo è differenziato e specifico, spesso tribale. Non è che le culture fondamentaliste islamiche abbiano delle difficoltà ad apprezzare la libertà. La disprezzano. Esiste un bene superiore che viene realizzato tramite la sharia, e le leadership hanno il compito supremo, quindi, di farla osservare. Gli uomini non devono essere felici, devono applicare la legge divina e la democrazia non è la strada. Il costante ritorno all'Intifada, al terrorismo capillare, al rifiuto di riconoscere Israele o di rispondere finalmente positivamente alle profferte di pace, ripetute fino alla nausea, dalla leadership israeliana di destra o di sinistra è una risposta ideologico-religiosa all'imperativo di cacciare gli infedeli da terre islamiche. La Sharia, come deve affermare la sua preponderanza rispetto all'Occidente distruggendo le Twin Towers, così ha necessità per affermarsi di combattere il nemico che proditoriamente occupa la Ummah, la comunità islamica. Ogni centimetro di terra un tempo occupata da quest'ultima, è sua per sempre. Quella terra che gli è stata data dal Cielo, si deve ascoltare la promessa, non c'è trattativa che tenga. L'assassinio di Anwar Sadat nell'81 è parte di quella vicenda: Sadat aveva osato accettare l'esistenza di Israele e stringerci una pace. Abdel Rahman, compagno di Ayman al Zawahiri, è lo sceicco dell'attacco al World Trade Center, lo stesso che dal carcere stilò la fatwa di assassinio, e lo stesso che l'ha stilata per l'attacco delle Twin Tower. Aveva combattuto in Afghanistan, e morì in carcere nel 2017.

Bin Laden, succedendogli, porta con sé tutta la rabbia dei palestinesi anti-accordo di pace, tutta la vittoria Afghana contro i sovietici, tutta la grandiosa speranza dell'attacco agli USA. E il nesso indelebile, tipico del suo dottorato in teologia, della parola jihad, che vuol dire lotta, e che nonostante tutti gli sforzi nostrani di trattativa, è pur sempre stabilita secondo la legge santa. I jihadisti attaccano per riprendersi territori o per allargare la forza della Sharia, e niente può costringerli a cambiare la santità della loro scelta. Bernard Lewis ha avvertito di questo molte volte. Hamas è stata la prima a congratularsi con i Talebani per il riconquistato potere in Afghanistan. I palestinesi, hanno festeggiato. Ismail Haniyeh il 17 agosto ha detto che questo segna "un nuovo standard per la resistenza contro Israele", ovvero dimostra chiaramente che la pazienza paga e che la "resistenza" di lunga durata può smantellare lo Stato d'Israele. Osama bin Laden a suo tempo disegnava la vittoriosa operazione delle Twin Towers come guerra contro "i Sionisti e i Crociati". Dopo quell'attacco, nelle città palestinesi dell'Autonomia, non solo a Gaza i palestinesi scesi in strada, festeggiavano con mortaretti e dolci. Yasser Arafat, comprendendo che questo avrebbe gettato nel caos i suoi rapporti con gli Stati Uniti, frenò i moti di piazza e dichiarò con grande disinvoltura, dato che l'Intifada era in pieno svolgimento, di condannare il terrorismo. Restò tuttavia solido e ripetuto il rifiuto di modificare l'aspirazione jihadista fondamentale dei palestinesi. Quando Israele ha lasciato il Libano nel 2000, mentre gli Hezbollah dichiaravano vittoria perchè "Israele è debole come una tela di ragno", Abu Ala, famoso leader palestinese, spiegava che "Tutti, qui, hanno visto il ritiro come una sconfitta strategica di Israele". Ovvero, come disse lui stesso, come un' esortazione a "uccidere gli israeliani, e a conquistare territorio". Si tratta di jihad, e questo è il punto:questa guerra, inclusa quella palestinese, non ha niente a che fare con circostanze politiche. E figlia di un'aspirazione ideologica fondamentale, e quindi irrinunciabile, ampiamente maggioritaria, certificata dalla ininterrotta vittoria di Hamas dal 2006 nell'opinione pubblica palestinese. Per questo Abu Mazen rimane lontano dalle elezioni che non si svolgono da allora. I palestinesi hanno sempre potuto contare sul senso di colpa che ha impedito all'Europa e anche agli USA di identificare la componente jihadista nel conflitto israelo-palestinese, di vedere che Hamas, nonostante il suo comportamento totalitario e razzista con le donne, i cristiani, i dissidenti, e anche l'Autonomia Palestinese, col suo sostegno per il terrore e il suo rifiuto di ogni accordo possibile, fanno parte dell'esercito jihadista. Per la jihad, i cui protagonisti sono sia sunniti che sciiti, solo la mukawama, o resistenza, può smantellare l'alleanza occidentale che domina il mondo e occupa le terre islamiche, incluso lo Stato d'Israele.

"I talebani" -ha detto Musa Abu Marzuk membro importante della direzione di Hamas- "hanno rifiutato le mezze soluzioni proposte dall'America. Essi non sono stati ingannati dagli slogan di democrazia o elezioni o false promesse. E' una lezione per tutti i popoli oppressi". E anche l'Autorità Palestinese, come cita il giornalista palestinese Khaled Abu Toameh dice sul ritorno talebano che "Israele deve assorbire la lezione, la protezione esterna non porta pace e sicurezza. L'occupazione israeliana di terra palestinese non durerà e finirà". Quando Netanyahu descriveva come letale la spirale terroristica, aveva ben presente la carta geografica del medio oriente e del terrorismo islamico che scaturiva sia dall'Iran sciita con gli hezbollah e da svariati gruppi sunniti, fra cui quello salafita dell'Arabia Saudita, da cui si originò Bin Laden. La scia di sangue è lunga, fra i più agghiaccianti attentati quelli dei terroristi suicidi in Libano alle baracche dei soldati americani, 241 morti e a quella ai soldati francesi, 58 morti. Era il 23 ottobre dell'83. Si disse che avevano come sfondo la guerra con Israele, ma la scelta strategica è quella della sharia che proibisce all'infedele di permanere sulle terre islamiche. Prima e dopo, fino a quelli di New York, di Gerusalemme, di Londra, di Parigi, fino alle stragi antisemite in Francia e in America gli attentati sono tutti illuminati dal lampo gelido del 9-11. Il mondo cambiò, come tutti dicono e scrivono, la "lunga guerra" al terrore formò una grande coalizione intorno agli americani, i talebani vennero cacciati, al Qaeda fu semidistrutta, e Bin Laden fu ucciso, Obama dichiarò vittoria, la gente cantava per le strade. Ma il bandolo della matassa non era stato afferrato. Il terrore dell'Isis, gli attentati nel mondo, i talebani, l'odio per l'Occidente e Israele non si sono modificati. Non potevano modificarsi perché la trama jihadista è paziente. Per smontarla va vista per quello che è, un progetto ideologico-religioso mondiale. Israele combatte bene la sua battaglia, e cerca la sua via di pace con gli Accordi di Abramo: un riconoscimento rispettoso delle altrui culture, per altro sostenute da prospettive vantaggiose. La via d'uscita è, almeno in parte, qui. Per il resto, la jihad iraniana sciita e quella sunnita lavorano sott'acqua e non impallidisce il loro sogno.

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