Con il Panshir, abbandonato dall'Occidente
Analisi di Bernard-Henri Lévy
Testata: La Repubblica
Data: 08/09/2021
Pagina: 27
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: L’onore del Panshir
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 08/09/2021, a pag. 27, con il titolo "L’onore del Panshir", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

Resistenza, Massud pronto a perdonare gli assassini di suo padre per la  pace del Paese
Ahmad Massud

Il 15 agosto, mentre su Kabul calava la notte, un afghano dal nome illustre, Ahmad Massud, annunciava di non rassegnarsi al peggio. Con l’aiuto di alcuni francesi, si impadroniva dell’ultimo elicottero non ancora caduto nelle mani dei talebani e, come suo padre, il comandante Massud, si ritirava nella valle del Panshir, da dove invitava a raggiungerlo quei compatrioti che non possono accettare di perdere le prassi di libertà, di democrazia e uguaglianza tra uomini e donne, acquisite in decenni. I talebani hanno risposto prendendo d’assalto la valle. Forti della schiacciante superiorità conferita loro dagli arsenali abbandonati dall’esercito americano, hanno attaccato da nord e sud. E, sostenuti da commandos, forze speciali e elicotteri da combattimento provenienti dal Pakistan, sembra che abbiano sconfitto questo bastione dell’Afghanistan libero nella notte tra il 5 e il 6 settembre. Come tutti coloro che sono rimasti disgustati dall’abbandono di Donald Trump e poi di Joe Biden nei confronti di questo popolo, sono stato per tutta la notte in preda a sentimenti contrastanti. In primo luogo, la paura. Angoscia per gli amici che ho rivisto solo qualche mese fa e di cui non conosco la sorte... Fahim Dashty, brillante giornalista con cui avevo concepito il progetto Nouvelles de Kabul: era sopravvissuto, il 9 settembre 2001, alla bomba nascosta nella telecamera che uccise Massud - come credere che lui, che aveva ingannato la morte, sia stato fatto a pezzi da un drone pakistano? Amrullah Saleh, vicepresidente del Paese fino al colpo di Stato talebano e, da allora, a rigore del diritto internazionale, suo legittimo presidente: è vero che ha chiesto alla sua guardia del corpo di piantargli una pallottola in testa se dovesse cadere nelle mani di un nemico - e, se sì, è vivo? E Massud? Dov’è? Che cosa sta facendo questo intellettuale dal nome glorioso? Per tutta la notte mi sono chiesto se sia salvo, se i talebani lo hanno catturato o gli hanno riservato, come a suo padre, il destino dell’ultima battaglia. È ancora a capo del suo esercito di ombre? C’è poi questa sconfitta, di cui fatico a cogliere il senso... È un rovescio momentaneo? Una disfatta? Uno di quei crolli da cui ci vogliono cinquant’anni per riprendersi e che la Francia conosce bene? O, piuttosto, una ritirata per guadagnare tempo? Una tattica? Un cessate il fuoco per cercare rinforzi? C’è, nel Panshir, qualcosa di Masada? È stata la sconfitta di un’ultima battaglia per salvare l’onore? Non credo. Io affermo che la nobiltà, la bellezza, la grandezza dell’essere umano appartengono qui non ai vincitori, ma ai vinti. Non ai barbari, ma ad Ahmad Massud, che non mi pento di aver esaltato quando ho detto ai suoi comandanti che un giovane leone era sorto nel Panshir. Ci sono leoni che perdono delle battaglie. Ma non è grave. Perché non smettono di essere dei leoni. Tanto più perché c’è un fatto che rimane. Poche ore dopo il bollettino della vittoria dei talebani, Massud il giovane ha lanciato il suo nuovo e spettacolare appello alla "rivolta nazionale". È sempre la stessa storia. Mai e poi mai il potere, i carri armati e le esibizioni muscolari di forza porteranno umanità. Dalle trincee dell’Ucraina sguarnita alle montagne del Kurdistan, anch’esse circondate, in nessun luogo gli arroganti trionfano per sempre sui popoli perduti, dimenticati, ma eroici. E a coloro che credono di aver vinto, che sparano in aria e ridono dei cadaveri di cui hanno colmato le valli, bisogna ripetere che non hanno né la dignità dei provvisoriamente vinti, né lo splendore di quei pochi che, affermava André Gide, saranno i soli a salvare il mondo. L’Afghanistan ha perso battaglie, ma non la guerra. È nella fossa dove sono caduti i combattenti del Panshir, ma la sua fiamma non è spenta e il Panshir non ha detto la sua ultima parola. Giace nelle confuse scie in cui oggi si mescolano le acque di uno dei più bei fiumi della terra e il sangue, i corpi, il fango dei combattenti uccisi - ma è qui che i semi della rinascita stanno già crescendo. I partigiani del Panshir, costretti a indietreggiare ma risoluti, sono come le donne di Herat, di Kabul e di Kandahar, che si ostinano a sfidare i talebani. Sono ciò che rimane di misterioso nell’umanità e che nessuna sventura può sottomettere. Sono quella parte, non maledetta, ma benedetta, che resiste, sopravvive e si rafforza nel crogiolo delle prove condivise. Il resto dell’Afghanistan. La speranza. Comincia la resistenza.
Traduzione di Luis E. Moriones

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