L'anno 5781, che volge al termine, era iniziato sotto felici auspici: firmati il 13 agosto 2020, gli Accordi di Abramo avevano infranto il dogma secondo cui la soluzione del problema palestinese era un prerequisito per qualsiasi riavvicinamento tra Israele e i Paesi arabi. Un presupposto che per decenni aveva ipotecato qualsiasi progresso verso la pace. Per l'Unione Europea era stato difficile nascondere la sua disapprovazione e sebbene i leader di Ramallah avessero lanciato le solite minacce stantie, le porte dell'inferno non si erano aperte. Oggi ci sono rappresentanze israeliane ad Abu Dhabi, a Manama e persino a Rabat in Marocco. Il volume degli scambi commerciali nati dagli accordi è dell'ordine di miliardi di dollari e non sembra risentire della pandemia, che ha fortemente limitato il numero di voli giornalieri tra le nuove destinazioni tanto apprezzate dagli israeliani. Inoltre, la politica di vaccinazione di massa intrapresa in Israele lo scorso dicembre comincia a dare i suoi frutti e il numero di malati gravi è in calo. Un successo raggiunto dopo mesi difficili e un alto prezzo umano. Il Paese ha vissuto un'instabilità politica senza precedenti di cui Hamas ha approfittato per provocare un nuovo scontro. Per lui si è rivelato un disastro. Certo, durante i combattimenti gli estremisti arabi hanno cercato di fomentare disordini nelle cosiddette città miste, ma i loro eccessi non sono stati seguiti dalla stragrande maggioranza degli abitanti di queste città. Di sicuro sorprende che né lo scontro armato con Hamas né questi disordini hanno impedito la formazione di una coalizione di governo a cui partecipa, per la prima volta nella storia di Israele, un partito arabo. Il partito “Ra'am” – Lista Araba Unita - vicino al movimento dei Fratelli Musulmani, conta su un elettorato religioso e conservatore che sostiene la causa palestinese; ha molti sostenitori tra i beduini del Negev. Uno dei suoi funzionari aveva affermato ancora ad aprile che lo statuto del partito vedeva il sionismo come un “progetto razzista e di occupazione.” La sua adesione non significa certo un cambiamento fondamentale, ma piuttosto la consapevolezza che solo partecipando al governo potrà promuovere progetti e leggi che soddisfino i bisogni della comunità araba. Gli ottimisti vogliono vedere questo come un primo passo verso una migliore integrazione degli arabi israeliani. E appunto le Paralimpiadi che arrivano da Tokyo ci hanno appena regalato un'immagine indimenticabile. Quella di Iyad Shalabi, un arabo israeliano paralizzato agli arti inferiori, che ha vinto due medaglie d'oro nel nuoto e che per due volte è salito sul gradino più alto del podio sotto la bandiera israeliana mentre risuonava l’inno nazionale “Hatikvah”. Certo, il modesto numero di medaglie vinte - nove di cui altre due in oro grazie all'impresa di un altro nuotatore, Mark Malyar, affetto da paralisi cerebrale, è lontano dai risultati raggiunti mezzo secolo fa. Infatti, nel 1976, Israele aveva vinto un totale di 69 medaglie, 40 delle quali d'oro. Solo che allora c’erano i veterani resi invalidi dalle guerre. Oggi non ce ne sono quasi più, e questo è un ulteriore motivo per rendere grazie all'alba del nuovo anno.
Michelle Mazel scrittrice israeliana nata in Francia. Ha vissuto otto anni al Cairo quando il marito era Ambasciatore d’Israele in Egitto. Profonda conoscitrice del Medio Oriente, ha scritto “La Prostituée de Jericho”, “Le Kabyle de Jérusalem” non ancora tradotti in italiano. E' in uscita il nuovo volume della trilogia/spionaggio: “Le Cheikh de Hébron".