L'Italia e le leggi razziste del 1938
Recensione di Diego Gabutti
La copertina (Baldini&Castoldi ed.)
Banalizzare le leggi razziali del fascismo è un classico per chi rivendica l’eredità di Mascellone. Be’, dicono, c’erano queste benedette leggi razziali, okay… nessuno però le rispettava, a parte qualche fanatico. Erano state pensate per compiacere Hitler, ma le stesse autorità fasciste, per non parlare degl’italiani qualsiasi, ci scherzavano sopra e le prendevano sottogamba, via. La difesa della razza, sotto la Buonanima, era una specie di salto nel cerchio di fuoco: un pegno da pagare alla scenografia imperiale, come il fez e la camicia nera, come il saluto romano e l’«A Noi». Gli ebrei stessi (a parte qualche drammatica ma in fondo limitata eccezione) quasi non s’accorsero delle leggi razziali. Se è impossibile, diceva il Dux, governare gl’italiani, figurarsi se era possibile trasformarli, via lavaggio del cervello e alè op, in persecutori e assassini d’ebrei. Eppure fu esattamente quel che successe: un alè op e via, gli ebrei furono rastrellati e scomparvero nei campi.
Tra tutti i libri che raccontano questa storia io ho un debole per L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini e Castoldi 2013) di Mario Avagliano e Marco Palmieri. Ci sono stati parecchi altri libri, naturalmenete, a partire dalla classica Storia degli ebrei sotto il fascismo di Renzo De Felice (Einaudi 2005, uscito in prima edizione nel 1961). Mi piace segnalare, tra i titoli usciti negli ultimi anni, anche un bel saggio su Giovanni Gentile e le leggi razziali di Paolo Simoncelli intitolato «Non credo neanch’io alla razza». Gentile e gli ebrei, Le Lettere 2013. (Gentile, racconta Simoncelli, non era antisemita, e fece anzi il possibile per aiutare gli ebrei con i quali lavorava, anche se non «si lasciò mai andare a esternazioni pubbliche, che dato il suo peso intellettuale avrebbero certo avuto eco e peso notevole», postillano Avagliano e Palmieri). È da leggere anche America nuova terra promessa. Storie d’ebrei italiani in fuga dal fascismo di Gianna Pontecorboli (Brioschi 2013, pp. 192, 15,00 euro): il racconto d’una diaspora, che non fu soltanto tedesca, ma anche italiana. Tutti libri importanti, assolutamente da leggere, ma Di pura razza italiana è stato il primo, per quel che ne so, a sgombrare il campo dalle peggiori idee e banalizzazioni. Idee di panna montata: gl’italiani non furono mai crudeli con i giudei salvo (di nuovo) rare e anzi rarissime eccezioni e, quanto poi a Benito Mussolini, il Dux era notoriamente un «buonuomo», mica un tiranno, tanto che mandava in ferie pagate, «al confino», i suoi avversari politici (come ha detto una volta Berlusconi, che deve avere un po’ troppo bazzicato Indro Montanelli, grande banalizzatore del fascismo, prima che il partito di plastica li dividesse e che l’oblio, infine, cancellasse praticamente ogni ricordo dell’uno e dell’altro).
Avagliano e Palmieri dicono esattamente quel che c’è da dire sugl’italiani: che non sono affatto «brava gente», qualunque cosa fantastichino di se stessi. Gl’intellettuali furono naturalmente i primi a unirsi con fervore alla campagna antisemita: «Scienziati, accademici, editori, letterati, scrittori, giornalisti e artisti si prestarono a fare da agitprop della campagna razzista contro i neri e gli ebrei. Alcuni sono già noti al grande pubblico, per esempio Guido Piovene, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, Eugenio Scalfari. La ricerca archivistica e bibliografica ha consentito di individuarne altri: Enzo Biagi, Antonio Ghirelli, Giulio Carlo Argan, Concetto Pettinato, Giovanni Spadolini, Mario Missiroli, Maria Luisa Astaldi, Aldo Capasso, Alfio Russo. Un elenco certamente incompleto. In linea generale per gli intellettuali resta valido il giudizio di De Felice: troppi uomini di cultura videro nella legislazione antisemita “una maniera per mettersi in mostra, far carriera, fare soldi, per sfogare i loro rancori e le loro invidie contro questo o quel collega”. Ma sarebbe limitativo ritenere che la loro adesione al razzismo di Stato fu dovuta per lo più a conformismo, acquiescenza, opportunismo o viltà». Tra loro «vi è chi sostenne le tesi razziste in modo convinto». Ma non furono soltanto gl’intellettuali a scatenarsi contro gli ebrei italiani. S’unirono al pandemonio funzionari statali, imprenditori, giuristi e magistrati, l’intero corpo insegnante, avvocati e persone comuni. Soprattutto persone comuni. Bastò un rapido shampoo al cervello per trasformare gl’italiani in antisemiti attivi e passivi: gli attivi scrivevano «vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei» sulla vetrina delle loro botteghe, i passivi lasciavano fare o si lamentavano sottovoce tra amici. Nessuno sembrò cogliere la dimensione apocalittica dell’antisemitismo fascista.
Avagliano e Palmieri raccontano tutta la storia nel loro libro, che non è soltanto un libro sugli orrori e le infamie del fascismo ma anche un libro sull’Italia e sugl’italiani, gente facilmente reclutabile sotto le peggiori bandiere, come si è visto negli ultimi settant’anni, anche dopo il fascismo. C’era qualcosa dell’odio antisemita – una sorta di Übermensch touch, per dire così – nell’amore per i peggiori tiranni (e macellai d’interi popoli) da parte del cosiddetto «popolo di sinistra» negli anni cinquanta e sessanta. C’era qualcosa d’antisemita, un tocco cioè di «superiorità antropologica», anche nell’antiberlusconismo chic, come pure nella bava alla bocca dei populisti pentastellari. Vale anche per questi fenomeni d’intolleranza politica e culturale la definizione che i socialisti viennesi davano dell’antisemitismo a cavallo tra l’Otto e il Novecento: ieri il socialismo degl’imbecilli, oggi la democrazia diretta dei mentecatti.
Diego Gabutti