I manifesti della contestazione
Recensione di Diego Gabutti
Sergio Risso, Sui muri. Manifesti della contestazione 1969-1979, WriteUp Site 2020, pp. 344, 45,00 euro.
Se il fascismo, come pensava Benedetto Croce, fu «una parentesi della storia italiana» – e c’è da dubitare che il carattere nazionale possa cavarsela con così poco, con una formuletta storicista e via – la stagione del goscismo e delle sinistre extraparlamentari fu molto meno: una parentesi nella parentesi di quello che Leonardo Sciascia chiamò, con espressione assai più efficace e veritiera di quella suggerita dal filosofo napoletano, «l’eterno fascismo italiano». Oltre alle scarse virtù che condivideva con l’intera scena extraparlamentare occidentale, e alle scarse virtù sue proprie, dalla pratica d’uno squadrismo classicamente (ma nascostamente) mussoliniano all’amore comunista ortodosso per i tiranni, da Stalin a Mao, da Che Guevara a Ho Chi Min, il goscismo italiano fu al confronto degli altri goscismi europei un estremismo particolarmente smorto. Non ebbe un’anima antiautoritaria, né seppe esprimere tecniche di comunicazione efficaci e originali, sempre a differenza del goscismo francese, per esempio, che s’ispirò a dada e al surrealismo, o del goscismo tedesco, che ebbe tra le sue fonti la Scuola di Francoforte (mentre qui da noi, al posto di Walter Benjamin, Max Horkheimer, Th.W. Adorno, Siegfried Kracauer, c’erano antiche glorie d’oratorio come Toni Negri, professorini sanguinari e tirabaci come Adriano Sofri, clown volontari e involontari come Mario Capanna e Dario Fo… praticamente I mostri di Dino Risi).
Era impossibile non riconoscere nel gruppuscolume extraparlamentare italiano, come rilevò Rossana Rossanda destando le ire dei falsi eretici e degli ortodossi, l’«album di famiglia» del Partito comunista: la cultura zdanoviana fondata sul catalogo Einaudi, le sviolinate marxleniniste alla «classe operaia» destinata a «dirigere tutto», la demagogia sbruffona di chi minaccia forche e colpi alla nuca a chiunque non faccia parte della ghenga, i fazzolettoni rossi, le lugubri feste in piazza, l’antifascismo da operetta delle «bande rosse» opposto al fascismo da operetta delle «bande nere», le sfilate tristi del sabato pomeriggio, e poi spranghe, fionde, mazze, «bocce» Molotov, presto anche rivoltelle, mitra e agguati omicidi in stile «triangolo della morte», come nell’Emilia-Romagna del secondo dopoguerra. Era il concentrato Liebig dell’eterno (parafrasando Sciascia) stalinismo italiano: una sinistra totalitaria, torva e trinariciuta, reazionaria e togliattiana, volubile e cocciuta nello stesso tempo. A dimostrarlo, i manifesti che Sergio Risso raccoglie e commenta nel suo Sui muri. Negli ultimi quaranta-cinquant’anni, di tutta questa sfibrata pubblicistica murale s’erano perse, e non a caso, le tracce. Parentesi nella parentesi del malinconico estremismo italiano, il nostro Sessantotto fu anche una stagione imbarazzante, quindi da dimenticare, anche se purtroppo gravida di conseguenze funeste (tra cui l’estremismo attuale, quello pentastellare, che discende per intero giù per li rami della scuola devastata dalla retorica extraparlamentare, che per prima esaltò le incompetenze, il «sei politico», l’«esame collettivo», il manganello… pardon, il pennarello che sorvola sulla sintassi sbilenca ma segna in rosso gli errori ideologici).
Recuperate dall’oblio, dove avevano trovato misericordioso riparo, queste remote affiche finto-rivoluzionarie tornano a cantare, per un momento, le antiche canzoni, sdolcinate e frivole come quando furono composte e salmodiate per la prima volta: «Basta con le guerre americane», «Tutti in piazza per il Portogallo», «Viva la Cina rivoluzionaria, grande retrovia della guerra di popolo in Indocina e avanguardia della lotta di classe nel mondo», «Libertà per gli studenti palestinesi prigionieri nei lager sionisti nella Palestina occupata», «Fuori Kissinger l’amerikano golpista», «Ora e sempre Resistenza», «È morto il compagno maresciallo Tito», «Lotta continua per il comunismo», «Africa rossa», «Potere operaio per l’insurrezione», «25 aprile rosso: spazziamo via i fascisti e il governo Andreotti», «Il trasporto si prende e il biglietto non si paga», «L. Calabresi assassino di Pinelli», «Cosa passa nella testa di un uomo perché diventi poliziotto?» E via così, accumulando svarioni, ebbrezze, spropositi, fesserie e fanatismi. E tutti, per di più, virati al grigio, banaloidi, fiacchi e premasticati, attraverso i decenni, dal Pc togliattiano.
A commento d’ogni singola immagine (in genere tizi zazzeruti à la Ce-Ce-Ghevarà e altri tizi che imbracciano mitra o impugnano pistole) figurano invariabilmente didascalie in langue de bois staliniana, una lingua che non è fatta per parlare ma per abbaiare, minacciare e maledire. Immagino che, nel curare questa ricchissima collezione di manifesti italogoscisti d’antan, Sergio Risso non intendesse mettere in evidenza, e tanto meno in burletta, la miseria intellettuale, culturale e morale dell’estremismo italiano. Penso che intendesse, al contrario, illustrare e onorare una di quelle particolari stagioni storiche «in cui il popolo si esprime da sé» (come scrive lo stesso Risso citando l’anarchico H.E. Kaminsky, autore del classico Quelli di Barcellona, il Saggiatore 1966). Ma il problema, con «quelle particolari stagioni storiche», come con «i vecchi tempi» secondo il pistolero d’un vecchio film western, è che «non ci sono mai state». Sono madeleine chimeriche, oltre che amare. Illudendoci di rievocare il paradiso perduto, finiamo per evocare (quando va bene) falsi ricordi e (quando va male) le oscure radici del tempo presente. Non di meno, o meglio proprio per questo, Sui muri è un libro prezioso: senza parole, ma proprio per questo più eloquente d’un saggio argomentato e dottrinale. Certe parentesi, sempre a rischio come sono di riaprirsi, non si chiudono mai abbastanza.
Diego Gabutti