30 anni dopo: Occhetto dalle bonifiche del Sahara alle occhiatacce
Commento di Diego Gabutti
Achille Occhetto
Sono passati trent’anni, ma sembra ieri che Achille Occhetto (scippata la segretaria del PCI al suo ultimo apparatčik dal look vecchio Comintern, lo spigoloso e tetro Alessandro Natta) si proponeva di «bonificare il Sahara». Che era un po’ come voler erigere una piramide o come proporsi di scavare il canale tra il Mar Bianco e il Mar Baltico (progetto del grande Stalin in persona, sponsor Maksim Gor’kij, forza lavoro i nemici del popolo ridotti in schiavitù nei campi di lavoro, risultato un canale inutilizzabile). Occhetto, del resto, non era nuovo a simili propositi. Vent’anni prima, alla fine degli anni sessanta, aveva proposto al partito d’organizzare delle brigate internazionali, sul modello di quelle create ai tempi della guerra civile spagnola, per correre al soccorso dei «Viet Cong», i guerriglieri vietnamiti. Luigi Longo, che all’epoca dirigeva il partito, gli aveva lanciato un’occhiataccia, e Occhetto aveva rinunciato con un sospiro ai suoi «sogni proibiti» di Walter Mitty comunista (Danny Kaye, nel vecchio film, fantasticava a occhi aperti d’essere uno sceriffo del west o un lupo di mare e lui, Achille detto «Achel» ma anche «Akèl », d’essere André Malraux o la Pasionaria). Altri tempi. Quando «il Viet Cong», come diceva uno slogan-tormentone dell’epoca, «vince(va) perché spara(va)», e anche più tardi, quando il Muro di Berlino stava per cadere o era appena caduto, Akèl era ancora un entusiasta. Rideva, piangeva, faceva gli occhiacci, baciava la moglie Aureliana; portava prima la kefiah da feddayyn e poi (era un riformista, dopotutto) il foulard tipo Gassman nelle commedie all’italiana; cambiava nome al partito, umiliava il povero Cossutta, insegnava ai socialdemocratici l’abicì della socialdemocrazia, applaudiva il pool Mani Pulite, parlava da pari a pari con Michail Gorbačëv (sembrava, ascoltandolo concionare dai pulpiti, che la perestrojka non l’avesse inventata Gorbačëv ma lui, «Akèl »).
"Viet Cong"
Soprattutto, però, Occhetto metteva in campo e anzi sul piatto la «Cosa» (ed era una questione metafisica forte, un problema d’identità, e persino di genere, nel senso del Fortunello di Petrolini, quando spiegava agli accademici e ai compagni di strada del suo tempo che «se mio nonno avesse la cosa / sarebbe mia nonna. / Se mia nonna avesse il coso / sarebbe mio nonno»). Filosofo, elegantone, il pizzetto, Aureliana, i Vietcong, Mani Pulite, il Sahara, la sciarpetta di seta. Di cos’altro aveva bisogno? Lui era il topo e l’Italia una grossa, odorosa ruota di formaggio. Tangentopoli, due o tre anni dopo la caduta degli dèi, sembrò spianargli definitivamente la strada: tranne lui, erano finiti tutti in galera, l’orizzonte era sgombro fin dove arrivava lo sguardo. Segretario generale della «Cosa», il baciatore d’Aureliane era certo, insomma, che fosse venuto il suo momento. Se nell’Est europeo c’erano stati settant’anni di tallone di ferro bolscevico, pensava ottimisticamente l’uomo della «svolta», volete che nell’Italietta rococò dei magistrati d’assalto, di Tonino Di Pietro, degli «sbancati» e degli «sbiancati», del «Compagno G» e del circo mediatico-giudiziario non ci saranno minimo (ma proprio minimo) una legislatura o due di tallone «cosista» di peluche? Come oggi, anche allora non c’erano più partiti moderati e devoti alla Dea Ragione da votare: democristiani, socialisti, repubblicani, liberali, socialdemocratici, erano tutti spariti. Eravamo alla lista unica, come in Romania sotto Ceausescu: la «Cosa» e basta, non c’era altro da votare. Alla testa d’una «gioiosa macchina da guerra», pronto a bonificare quanto prima anche il Sahara ma accontentandosi per il momento di beneficare il Bel Paese con una dose robusta di socialismo dal volto umano, Occhetto s’apprestava a vincere o meglio a stravincere le elezioni. Sappiamo il seguito. Come dice l’inno, meno male che Silvio c’era. E oggi? Oggi Akèl viene invitato in tutti i talk show dopo decenni e decenni d’oblio. Cos’è successo? Si celebra la caduta del Muro di Berlino (tutti festeggiano il trentesimo anniversario del grande crollo, qualcuno masticando magari un po’ amaro) e lui è la caduta del comunismo fatta persona. Non parla d’altro, e ne parla commuovendosi, trattenendo le lacrime proprio come allora, come se non fosse preistoria ma stretta attualità: la morte secca del comunismo sta all’Akèl come i maccheroni a Pulcinella e l’economia gioconda a Pantalone. Si commuove, da vecchio «cosista», ma è anche offeso: cambiato nome al PCI, i suoi due colonnelli, D’Alema e Veltroni, cambiarono infatti anche lui, cacciandolo in malo modo e soffiandogli la poltrona. Di qui un broncio perenne, rivolto agli anticomunisti, ma anche ai comunistoni. Akèl ce l’ha con tutti, tutti gli sono debitori. Qualche anno fa, nel tentativo di spiegare lo scandalo che gli era costato la direzione e anzi la primogenitura del partito cosista, scrisse un libro, Potere e antipotere, nel quale si poteva leggere che «una delle colpe più gravi del totalitarismo collettivista è stata lasciare nelle mani delle democrazie occidentali la bandiera della democrazia». Sono cose che Akèl non perdona né perdonerà mai a Stalin e ai suoi successori (escluso Akél, gli ex colonnelli compresi). Ma come? Siete totalitari e difendete la causa del totalitarismo lasciando che siano le democrazie a difendere la causa della democrazia? Roba da pazzi. Una lacrimuccia, uno sguardo cattivo, e poi di nuovo via per talk show.
Diego Gabutti