Moro, il caso non è chiuso
Commento di Diego Gabutti
Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni, Moro. Il caso non è chiuso. La verità non detta, Lindau 2019, seconda edizione, pp. 272, 18,00 euro, eBook 13,99 euro.
Stephen King ambienta alcune sue storie a Castle Rock, una località immaginaria della provincia americana, dove l’horror è parte della vita d’ogni giorno e nessuno in fondo è mai troppo stupito quando cani infernali, vampiri, zombie, fantasmi e clown dai denti affilati fanno la loro comparsa da Walmart o da McDonald’s. Ebbene, anche l’Italia – l’Italia degli anni settanta, l’Italia della P38 e del tritolo – è una località horror, al centro di quasi tutte le nostre storie, dove non si contano i mostri di passaggio: spie di tutte le potenze, brigatisti e neofascisti armati fino ai denti, terroristi palestinesi, sindacalisti felloni, servizi d’ordine di partiti e gruppuscoli, psichiatri schizzati, «indiani metropolitani», politici a volte troppo (ma più che altro mai abbastanza) astuti. All’incrocio di tutte queste storie: il destino e la storia del presidente democristiano Aldo Moro, due volte presente nelle cronache del tempo, prima per via del «Caso Moro» e poi (quando venne alla luce) per via del «Lodo Moro», entrambi «misteriosi» e «mai chiariti», per citare i titoli da melodramma delle gazzette. Così misteriosi, naturalmente, o così poco chiari, il Caso e il Lodo Moro non sono mai stati, nemmeno a ridosso degli eventi, come raccontano Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni (lei sperimentata cronista, lui presidente della Commissione Moro 2) in un libro che è un po’ lo Shining o l’IT della prima repubblica. Popolato di vittime eccellenti e d’assassini seriali, di trafficanti d’armi, d’intrighi orditi dai maestri sovietici di «disinformazia», Moro. Il caso non è chiuso. La verità non detta, uscito nel 2018 in prima edizione, è giunto in questi giorni alla seconda edizione, arricchita (come si dice) di «nuove rivelazioni», tra cui il ruolo dei servizi italiani – che appaiono qui molto più compromessi di quanto si sia pensato finora – nella guerra dell’OLP di Yasser Arafat e dell’FPLP di George Habash contro Israele. All’inizio era stato un machiavello. Realpolitik: servizi segreti e piani alti della Democrazia cristiana, sottoscrivendo il cosiddetto «Lodo Moro», autorizzavano la guerriglia palestinese, che dirottava aerei e seminava cadaveri in mezzo mondo, a usare l’Italia come base logistica per tutte le sue operazioni, dalla preparazione d’attentati al traffico d’armi, e in cambio OLP e FPLP s’impegnavano a non compiere attentati sul nostro territorio. Poteva anche funzionare. Era un patto cinico ma aveva un suo perché. Solo che non è mai una buona idea firmare un patto con il diavolo, come hanno imparato a proprie spese, lasciandoci la vita o l’anima, il Dottor Faustus e altri spericolati, tra cui anche Aldo Moro, che s’intestò il contratto con Mefistofele (voluto, all’origine, da Giulio Andreotti) e lo gestì attraverso un avventuroso e torbido uomo dei servizi: il colonnello Stefano Giovannone, che viaggiava tra Roma e il Medioriente con la borsa diplomatica sempre piena d’informazioni (ma erano più quelle in uscita che quelle in entrata, si racconta). Patto diabolico, patto cattocomunista, il «Lodo Moro» ebbe subito le peggiori ricadute. Una su tutte: come c’era un patto di mutua convenienza tra Democrazia cristiana e terrorismo palestinese, ce n’era uno di fratellanza, stretta e operativa, tra le bande armate mediorientali e quelle italiane. Del traffico d’armi palestinese, che serviva per uccidere israeliani e altri nemici della buona causa antimperialista, profittavano largamente anche le nostre Brigate rosse e nere, che usavano le armi trafficate da OLP e FPLP per ammazzare – qui in Italia, «sul nostro territorio» – italianissimi «nemici del popolo»: magistrati, giornalisti, metronotte, guardie giurate, medici, avvocati, sindacalisti in odore di «revisionismo», assistenti sociali, professori universitari, bottegai e semplici passanti. Morale: è raro che se ne parli, di solito si sorvola, ma non serve una laurea, come dicevano le nostre nonne, per capire che l’estrema ricaduta del «Lodo Moro» fu il «Caso Moro». Fu aprendo le frontiere al terrore antisraeliano, che coniugava terzomondismo e comunismo, KGB e nascenti derive islamiste, che Moro e gli altri politici italiani di rango finirono nel mirino d’autonomi e brigatisti, delle bande armate (non soltanto di sinistra, ma soprattutto di sinistra) e dei servizi d’ordine delle ghenghe extraparlamentari. Cominciava lo sconquasso – ogni giorno un omicidio, ogni mezz’ora una «gambizzazione», ogni sabato pomeriggio una manifestazione armata nelle vie del centro – e lo Stato italiano aveva per alleato l’alleato palestinese dei terroristi che mettevano il paese a ferro e fuoco. C’erano i vampiri, ma come fidarsi dei cacciatori di vampiri? Ovunque zombie, spettri ululanti, clown infernali, e il nostro campione era il colonnello Giovannone, che per mestiere s’arruffianava i mostri, a cominciare da George Habash e Yasser Arafat. Costoro si rivelarono mostri al punto da dimenticarsi del «Lodo Moro» quando Moro finì nelle mani delle Brigate rosse. Quanto a Giovannone, non si smentì nemmeno quando due giornalisti italiani, Graziella De palo e Italo Toni, scomparvero nel settembre del 1980 a Beirut, dove stavano seguendo una pista (due anni dopo l’affaire) sul traffico d’armi dall’Italia al Libano. Secondo Giancarlo Amati, un magistrato romano che testimoniò davanti alla Commissione Moro 2, fu «Giovannone, nel timore che... – dico Giovannone perché, secondo me, è stato lui – a dire ai palestinesi, ad Habash: “Guardate che questi due vogliono farci le scarpe. Sono venuti qua per indagare” eccetera e George Habash li ha ammazzati… è semplice. Perché non è che lì si va tanto per il sottile: lì, se tu sei indicato come spia o come uno che vuol fare indagini su cose che non devono apparire, ti fanno fuori». Non che «secondo me», anche quando a dirlo non è il primo che passa ma un magistrato, sia qualcosa di cui fidarsi ciecamente, come delle deduzioni di Sherlock Holmes o delle quartine di Nostradamus. Ma intanto è ufficiale che fossero loro – i Giovannone, capo centro del Sismi a Beirut, e i sottoscrittori del «Lodo» con la Cupola del terrorismo palestinese, tra cui anche lo stesso presidente della Democrazia cristiana assassinato a Roma – la prima linea del nostro antiterrorismo. C’erano loro tra noi e i tribunali del popolo, tra noi e i mostri degli anni di piombo e di fango. Statisti dilettanti, approntarono trappole e ci caddero dentro loro. Sono state le loro mosse e contromosse da spy story di serie B a trasformare i «Lodi» in «Casi» e anche un po’ in barzellette, salute a noi. È grazie a loro se un «Morucci» e un «Moretti» hanno condannato Aldo «Moro» a una morte tragica.
Diego Gabutti