I due Matteo
Commento di Diego Gabutti
Matteo Renzi, Matteo Salvini
Non hanno soltanto lo stesso nome: Matteo. Hanno anche gli stessi nemici: Salvini le «zingaracce», Renzi gli zingaretti. Entrambi, poi, sono vittime della stessa astuzia mal calcolata: il referendum sulla propria persona dopo aver sbancato il casinò delle elezioni europee (Renzi nel 2014, Salvini poche settimane fa). Entrambi hanno giocato la carta della rottamazione: Renzi depurando l’organigramma e le liste elettorali del partito democratico, Salvini dando il benservito (ma campacavallo) a Giuseppe Conte e Gigetto di Maio. Entrambi spendaccioni con gli altrui dané, hanno allegramente salassato le casse della Repubblica prima con gli «80 euro», opera del Matteo fiorentino, e poi con «quota 100» e col silenzio-assenso sul «reddito di cittadinanza» 5 Stelle, opera del Matteo meneghino. Praticamente due gocce d’acqua, arruffapopoli monozigoti, Matteo R. e Matteo S. sono simili al punto che, come spesso capita, quando preparano una trappola agli altri ci cadono dentro loro.
Vediamo chi comanda, hanno strepitato entrambi, ciascuno al suo turno. E sorpresa, è saltato fuori che non comandavano loro ma gli altri: l’«accozzaglia» (per definizione «contronatura») dei loro nemici. Menzogna, diffamazione: Renzi e Salvini non si somigliano nemmeno un po’, protestano in questi giorni i loro seguaci. Renzi è un radical chic, dicono i salviniani. È il «maleducato di talento» evocato anni fa da Ferruccio De Bortoli, è un fan dell’immigrazione selvaggia, un globalista sfrenato e un servo della finanza europeista, mentre invece il Capitano… ah, il Capitano è il nemico dei poteri forti, del cosmopolitismo culturale, dei post comunistoni e dell’immigrazione senza regole (e anche un po’, volendo, dell’immigrazione e basta). Stessa reazione in campo renziano, quel poco che ne resta. Mentre Salvini è un fascistone, dicono, magari un fascistone involontario, come chi si rende ridicolo senza nemmeno accorgersene, il nostro Matteo non è soltanto la speranza della sinistra italiana, che gli Zingaretti vorrebbero riportare al Pleistocene dalemiano e bersaniano; è anche la sola speranza rimasta al moderatismo italiano, tradito da Silvio Berlusconi e dal suo circo a tre piste (soi-disant liberale e liberista) di nani e Olgettine danzanti. Tutte cose più o meno vere, metafisicamente parlando: progressista Renzi, sovranista Salvini; il primo amicissimo delle ONG e buono come il pane, tutto «accoglienza, accoglienza» e Azione cattolica; il secondo ingrugnito e plebeo, un tipaccio deciso a salvare la patria dall’arrembaggio delle masse (e delle banche) straniere.
All’incirca è tutto giusto. Ma questi sono anche gli autoritratti (astuti, e molto ritoccati) che questi particolari leader fanno circolare tra gli elettori per arruffianarsi quei pochi tra loro che, a dispetto delle esperienze accumulate, ancora credono nelle favole dei politici, dei giornali, dei «social» e degli uffici stampa. Ci sarà da fidarsene? E questi ritratti resteranno così somiglianti ancora a lungo? Mai come negli ultimi anni, spazzate via dalla crisi economica (e migratoria) le rappresentanze tradizionali, i politici populisti e antisistema hanno fatto non della sola spregiudicatezza, com’è sempre stato, ma dell’incoerenza sfrontatamente ostentata, e anzi orgogliosamente rivendicata, una suprema virtù. Un giorno Matteo R. scomunica il Pd zingarettiano perché sospetta che i suoi arcinemici post dalemiani puntino a un inguacchio con i pentastellari; un altro giorno punta lui stesso all’inguacchio e strilla contro gli zingarettiani che invece tentennano. Quanto a Matteo S., prima dà il benservito ai «ragazzi meravigliosi» di Beppe Grillo (intimando a deputati e senatori della repubblica d’«alzare il culo» e di tornare a Roma nel pieno delle ferie allo scopo di votare senza indugio la sfiducia a Conte) e poi, una volta constatato che nel pentolone (con una mela in bocca) stanno cucinando lui, ricorda all’«amico Di Maio» che «il mio telefono è sempre acceso» e che un nuovo accordo politico, dimenticati gli equivoci e le incomprensioni, si può ancora trovare. I tempi cambiano, tutto passa, tutto va, e oggi nessuno si stupisce rilevando che anche la coerenza, come la storia e la geografia, per non parlare della logica formale, è diventata un arnese vecchio e superato. Ogni giorno una sorpresa, ogni tweet un’imboscata, ogni tiggì un saltafosso. Niente di male (stati ansiosi a parte). Gli elettori sembrano rassegnati e, rassegnati loro, rassegnati tutti. Chi siamo noi per criticare gli abiti nuovi dei due imperatori?
Diego Gabutti
Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), di Sette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore di Italia Oggi, direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri: "Un’avventura di Amedeo Bordiga" (Longanesi,1982), "C’era una volta in America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone" (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); "Millennium. Da Erik il Rosso al cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci secoli" (Rubbettino, 2003). "Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)