Benjamin Netanyahu: ecco perché ha già vinto comunque
Analisi di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio
Data: 06/04/2019
Pagina: 3
Autore: Giulio Meotti
Titolo: Netanyahu ha vinto comunque
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 06/04/2019 a pag.III, con il titolo "Netanyahu ha vinto comunque" l'analisi di Giulio Meotti.

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Giulio Meotti

I suoi lo chiamano melekh yisrael, il re di Israele. Se martedì, alle elezioni, “Bibi” Netanyahu dovesse rivincere sorpasserebbe il mandato di David Ben Gurion. “Bibi o Benny”: Netanyahu o Gantz, l’ex capo di stato maggiore alla testa di una coalizione di generali assieme al giornalista Yair Lapid. “La base di Netanyahu è meno entusiasta”, dice al Foglio Nahum Barnea, il commentatore più noto del giornalismo israeliano che scrive su Yedioth Ahronoth. “Ma la cosa singolare è che la sfida oggi è fra la destra di Netanyahu e la destra soft di Gantz”. La sinistra è morta. Appena il dodici per cento dell’elettorato si definisce tale. Gantz è il generale che assunse il comando del sud del Libano dopo che il suo predecessore fu ucciso da una bomba, il figlio di sopravvissuti alla Shoah che ha scalato così rapidamente i vertici di Tsahal da essere soprannominato “il principe”. “Anche le persone che odiano Netanyahu, quando chiudono gli occhi, non immaginano nessun altro nel suo ufficio”, ha scritto Micha Goodman, autore di “Catch-67”. Netanyahu potrebbe sopravvivere alle elezioni, farsi processare al mattino e guidare il paese nel pomeriggio. Bibi ha lasciato poche cartucce agli avversari. Ha reso Israele più ricco e sicuro; ha usato la forza militare senza essere risucchiato dalle guerre; ha migliorato i rapporti con i vicini ostili e i leader mondiali (Israele ha appena avuto l’avallo americano alla sovranità sul Golan e ha ricevuto il presidente brasiliano Bolsonaro) e alle spalle ha già quattro vittorie elettorali che lo hanno incoronato primo ministro dal 1996 al 1999 e dal 2009 a oggi.

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Benjamin Netanyahu

Parlando alla Knesset, Netanyahu si è dato una pacca sulla spalla: “Questo decennio è stato un decennio meraviglioso, di crescita, di rafforzamento, di stabilità, di sicurezza, di prosperità”. E’ la colonna sonora della sua campagna elettorale. Vi è però insoddisfazione per la bassa spesa pubblica e gli inadeguati investimenti nelle infrastrutture, conseguenze del progetto di Bibi di forte riduzione del debito pubblico e del taglio delle tasse. Gli elettori provenienti da ambienti conservatori religiosi e operai, immigrati russofoni e mizrahi (ebrei dal mondo arabo) restano la solida base del suo Likud. Ne è un esempio Miri Regev, ministro della Cultura, la nemesi della “giunta culturale”, come la chiama. “Persone che pensano che Cechov sia più importante di Maimonide”, ha detto Regev, cresciuta a Kiryat Gat, città nel sud creata negli anni 50 per accogliere gli immigrati ebrei provenienti da paesi islamici. Famiglie numerose da società tradizionali, conservatici e nazionalistiche. Regev ha minacciato di dirottare i fondi dall’Israeli Opera e dai teatri di Tel Aviv – baricentro dell’intellighenzia di sinistra – verso le aree più svantaggiate. Ron Cahlili, autore di documentari, sintetizza così: “E’ donna, è mizrahi e ogni venerdì pubblica foto di sé mentre cucina pesce speziato e parla del Monte del Tempio. La sinistra bianca non può accettarlo”. La madre di Regev, Mercedes, immigrò dalla Spagna da adolescente e continua a guardare in tv le notizie in spagnolo. Il padre, Felix, viene dal Marocco e faceva il saldatore. Non sono ortodossi, ma “masorti”, ebrei per tradizione, come molti sostenitori di Netanyahu. A “spingere” Bibi c’è il voto russo, decisivo dopo le grandi ondate di immigrazione seguite al crollo dell’Unione sovietica. “I ricchi, gli artisti… queste élite, loro odiano tutti, odiano la gente”, ha detto Bibi ai sostenitori. “Odiano i mizrahi, odiano i russi, odiano chiunque non sia uno di loro”. Netanyahu è il “primo populista”, se questa definizione ha un qualche significato (il disprezzo per la stampa e l’Europa, le politiche restrittive sull’immigrazione, l’amicizia con Visegrad e Trump, la vittoria sull’élite economica e intellettuale). Goodman ha suggerito che Netanyahu abbia costruito una carriera non come costruttore, alla Ben Gurion, ma come “colui che previene”, chi avverte della catastrofe e poi, come Churchill, uno degli eroi di Netanyahu, la sventa. Un giornalista israeliano di Haaretz, Anshel Pfeffer, autore di “Bibi. The turbulent life and times of Benjamin Netanyahu”, scrive che il premier ha in mente per Israele “una società ibrida di paure antiche e speranze high-tech, una combinazione di tribalismo e globalismo”. Commentando la sconfitta alle elezioni del 1996, Shimon Peres disse che gli “israeliani” avevano perso e che gli “ebrei” erano usciti vincitori. C’era del disprezzo in quella frase, ma anche della verità. Netanyahu è stato il più abile a sedurre l’identità di un popolo sotto assedio. E’ l’“orientalizzazione” di Israele, che guarda sempre più a est anche in termini di alleanze e abbraccia il sionismo religioso, forte fra gli ebrei sradicati della cultura araba. Netanyahu ha arricchito gli israeliani (quando Bibi ha sostituito Ehud Olmert il reddito pro capite era di 27 mila dollari, oggi è 37 mila), ha allacciato rapporti con i giganti asiatici (l’India in testa), il mondo arabo e l’Africa. In sicurezza, mai un azzardo. Secondo uno studio realizzato da Nehemia Gershuni-Aylho, Netanyahu ha avuto come premier il minor numero di vittime di guerra e di attacchi terroristici. “L’idea di Netanyahu come custode di Israele, che protegge il paese dagli attacchi fisici e politici, risuona in molti israeliani sospettosi nei confronti dei palestinesi e del resto del mondo”, scrive in “The resistible rise of Netanyahu” lo storico inglese Neill Lochery. Secondo Lochery, Netanyahu vince in quanto “outsider”: è ashkenazita ma si fa carico della rimostranze sefardite; si è formato negli Stati Uniti ma è inviso alla diaspora progressista americana; vive in una delle città più ricche del paese (Caesarea) ma è il campione dei ceti popolari; è un falco che fa un uso misurato della forza; è un nazionalista cresciuto sulla Cnn. Il segreto del successo di Netanyahu risiede in posti come Kiryat Malachi, la “città degli angeli”, roccaforte del conservatorismo delle grandi famiglie. I figli della Israel hashniah, la seconda Israele, che non ha fondato lo stato, ma che ne è stato la forza, quella dei campi profughi di tende e Ddt spruzzato sui nuovi arrivati, i giovani relegati nell’esercito ai lavori più umili, mentre l’“élite” come Peres scalava il ministero della Difesa. Lì, Bibi viene celebrato come un eroe perseguitato da una cricca di giornalisti e giudici liberal, un leader senza pari i cui peccati veniali (suoi e della moglie Sarah) sono perdonabili. “I revisionisti di destra, gli ebrei religiosi, i mizrahi emigrati dalle terre arabe, la piccola borghesia delle nuove città, tutti dovevano essere fusi nel crogiolo del ‘nuovo ebreo’ e nella storia ufficiale israeliana” scrive Pfeffer. “Non ha funzionato. L’‘altra Israele’ ha dominato la seconda metà della storia di Israele fino a ora e Netanyahu ne è stato il campione”. I laburisti hanno il maggior numero di voti in 28 delle 33 città più ricche, mentre il Likud gode di una maggioranza altissima nelle fasce medio-basse; in 64 di queste 77 città, il primo è il Likud. Netanyahu vince fra i “coloni” della Cisgiordania, ma anche nella periferia della Linea verde, in posti come Sderot (42,8), Ashkelon (39,8), Or Yehuda (40,5), Ramle (39,8), Tiberiade (44,5) e Kiryat Shmona (39,9). In quest’ultima città Peres e i suoi ministri vennero sonoramente fischiati quando si presentarono, mentre Netanyahu fu acclamato come un eroe. Sono le città sotto il tiro di Hamas e Hezbollah e città in maggioranza abitate da ebrei del mondo arabo. E nelle periferie, quando il voto non va a Bibi finisce ai partiti della destra religiosa o agli ultraortodossi, partner di coalizione di Bibi, che difficilmente si legherebbero in una coalizione con i generali pronti a cooptare nell’esercito i giovani delle scuole religiose. Netanyahu ha il 40 per cento dei voti in città periferiche come Beersheba e Ashdod.

La coalizione centrista è forte nella megalopoli costiera da Tel Aviv ad Haifa e la “tribù bianca” degli ebrei ashkenaziti le cui famiglie sono da più tempo nel paese, laiche, connesse, colte, globalizzate, dai redditi superiori. A Kfar Shamriyahu, la città più ricca di Israele, i partiti della sinistra hanno il 75 per cento. Nehemia Shtrasler, un commentatore di economia, ha affermato che “tribù bianca”, di cui era “presidente” lo scrittore Amos Oz, si riferisce a “un gruppo amorfo di ebrei di origine ashkenazita che vive a nord di Tel Aviv e che disprezza profondamente i religiosi”. Un’altra espressione negativa che ricorre è “la tribù degli snob che mangiano sushi”. A Tel Aviv, ad esempio, Netanyahu ha un bastione nel mercato Hatikvah, quello dei ceti popolari, rispetto al più turistico e hipster mercato di Hacarmel che vota a sinistra. I laburisti a Tel Aviv hanno il doppio dei voti del Likud. Un cliché, per tanti versi, ma un cliché con del vero. Yair Lapid, il giornalista a capo di Yesh Atid che si è alleato con Gantz, è il “re dell’upper middle class”, per usare la definizione di Haaretz. E’ la “trumpificazione di Israele”: “Anche in Israele i partiti di sinistra hanno perso il sostegno della gente comune; i lavoratori della classe medio-bassa sono passati in gran parte a sostenere i partiti conservatori di destra” scrive Tzvia Greenfield di Haaretz. “I partiti di destra come il Likud una volta erano la borghesia colta. Oggi riflettono gli stati d’animo e le tendenze della classe inferiore, che si sente esclusa e oppressa”. Alle ultime elezioni, i laburisti hanno avuto il 45 per cento dei voti del dieci per cento di Israele che detiene la ricchezza. Affermava già negli anni 80 il sociologo Uri Wegman che si pensa a Israele come a una società super sviluppata, con un alto livello tecnologico e un modello di vita occidentale. In realtà Israele è un “microcosmo”. Ha le caratteristiche degli Stati Uniti, dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo: l’espansione dell’high tech, la concentrazione urbana, l’ipertrofia terziaria, il deserto, la mancanza d’infrastrutture e un forte nazionalismo. La svolta ci fu nel dopo Kippur, quando una parte della sinistra laica flirtò con l’abbandono d’Israele, mentre i sefarditi fecero blocco. “Noi restiamo”, dissero. Un medico, un architetto venuto dagli Stati Uniti o dalla Francia era sempre in grado di andarsene da Israele per reinserirsi in quelle società occidentali. Ma un ebreo sefardita può tornare in Siria, in Iraq, in Iran o in Marocco? No. Non è poi cambiato molto da allora, tanto che Netanyahu non ha avuto timore di alienare i rapporti con la grande diaspora liberal americana. “Netanyahu ha dalla sua le parti più povere, la sinistra prende solo voti dai ceti medio-alti”, dice al Foglio lo storico Ofir Haivry, vicepresidente dello Herzl Institute di Gerusalemme e fra i fondatori dello Shalem College: “La base di Netanyahu è più larga. Il consenso per la destra in Israele è al 70 per cento se togli gli arabi, che votano in blocco con la sinistra, facendo sembrare che ci sia una differenza piccola. C’è una estrema sinistra che è il cinque per cento di ideologici. Ma la maggioranza della sinistra israeliana è fatta di alti funzionari dello stato, pensionati medio alti, professori, professionisti, la cui carriera e vita sono sempre state basate su grandi istituzioni statali o quasi. Sono cresciuti nel mondo di Ben Gurion, mentre la società israeliana cambiava. Come i benestanti in Toscana che votavano ancora comunista senza comunismo. La ‘tribù bianca’ non vota tutta a sinistra, solo una parte. La maggioranza degli ashkenaziti vota per Netanyahu. Come chi ha un negozio, un imprenditore, uno dell’high tech, vota per Bibi. La sinistra è votata dai vecchi pensionati nelle case di riposo cresciuti dentro a una società socialista. L’immigrato vota a destra. I giovani, chi è arrivato trent’anni fa, votano tutti a destra. I poveri in Israele sono meno socialisti dei ricchi. I poveri vedono nel welfare un aiuto alle sezioni più forti del paese anziché alle cassiere dei supermercati. Mia nonna rimase vedova a 50 anni, otto figli, per lei fu un dolore morale essere pagata dal welfare se poteva lavorare. Così lavorava in tre posti diversi. La situazione economica sotto Bibi va benissimo, non esiste disoccupazione. Ci sono segmenti della popolazione cui non piace Bibi e se ci fosse un altro candidato la destra riceverebbe forse anche più voti. Il consenso ideologico è vastissimo per la destra. Le idee forti sono che non esiste una opzione per la pace con i palestinesi; una politica estera aggressiva verso l’Iran; economicamente a favore del libero mercato e meno assistenzialismo; infine un tradizionalismo culturale. E’ come per voi italiani avere un crocifisso nelle scuole… La sinistra vorrebbe un Israele meno ebraico e più multiculturale. A sinistra questa idea è molto forte. Al centro si tende a dirlo velatamente. Tutto il centro della politica si sta spostando a destra.

La sinistra riceve il 15 per cento dei consensi. Israele è un simbolo per quello che sta succedendo in Europa, dove la nuova politica populista distrugge molto più a sinistra che a destra. Un ashkenazita ricco, colto, detesta Netanyahu per motivi ideologici: sono raffinati, benestanti, ma non si vedono come ricchi, sono come Jeff Bezos. E così in Israele i ricchi sono più a favore dei palestinesi. E temono che gli ebrei che vengono dall’islam diventeranno il ragionier Brambilla di Israele. E’ lo stesso modo di pensare che spinge in occidente a tassare chi ha l’auto, ‘tutti in autobus, tanto io vivo in centro e non devo prenderlo’. Oggi, a Torino, la sinistra è votata non dai proletari, ma dai benestanti. E’ an - che il problema in Israele, ‘la bolla’. Qui il classico funzionario dello stato che poi lavora per una fondazione voterà sempre contro Bibi. Ma la demografia andrà tutta a vantaggio della destra. I figli della ‘tribù bianca’ votano Netanyahu. E Gantz e Yaalon e Lapid devono mascherarsi diventando più di destra. Lapid è bianco ma non della tribù, è antistatalista, non ha snobismo verso i ceti bassi. In Israele durante gli anni 90 c’è stato un tentativo forte della vecchia élite di dire ‘sia - mo arrivati alla pace e dobbiamo pagare un prezzo’. Gli israeliani hanno tentato dieci anni, fino ad Ariel Sharon, quando si è capito che non ci sarà pace in questa generazione. Per cui tutte le zone di confine oggi hanno una visione realistica della sicurezza e votano Netanyahu. Vogliono un primo ministro che punti sulla sicurezza nazionale. Il problema di Gantz è di non voler essere troppo diverso da Bibi per vincere, ma così facendo non ha molto successo”. Gideon Rahat, professore all’Università Ebraica, ha detto che Netanyahu beneficia di un elettorato sempre più a destra dopo la Seconda Intifada. “E’ il punto di rottura per molti israeliani”, ha affermato Rahat. La percentuale di israeliani che favoriscono i colloqui con i palestinesi è scesa da oltre il 70 per cento al 50 per cento in dieci anni. Tra i sostenitori di Netanyahu è al 30 per cento. Meglio continuare così che accettare uno stato palestinese a un tiro di cannone da Jaffa. “Può Israele sopravvivere senza Netanyahu?”, si è chiesto il New York Times lo scorso 2 marzo. Il sole è sorto ogni volta dopo le guerre in cui il mondo arabo-islamico ha provato a cancellare Israele dalla mappa geografica. E sorgerà anche dopo l’eventuale caduta del re e l’ascesa del principe.

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