Come Trump sta ridisegnando la politica estera Usa
Analisi di Antonio Donno
La decisione di Trump di dare un drastico taglio agli aiuti al Pakistan rientra nell’abbozzo di strategia mediorientale che l’amministrazione americana sta elaborando.
Il sostegno al Pakistan risale agli anni della guerra fredda, quando l’India di Gandhi, che faceva parte del gruppo dei non-allineati, in realtà era molto più vicina a Mosca che a Washington. Così, il sostegno a Karachi aveva un significato ben preciso, perché faceva da contraltare alle posizioni filo-sovietiche dell’India, sotto il mantello di un neutralismo di facciata. Tra l’altro, l’avvicinamento del Pakistan agli Stati Uniti era facilmente comprensibile, in considerazione dell’ostilità incessante tra Karachi e New Delhi.
Ma, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il progressivo espandersi dell’islamismo radicale – veicolato attraverso una diffusione capillare del terrorismo islamista, foraggiato dall’Iran khomeinista – il Pakistan aveva man mano cambiato volto.
Era divenuto la base del movimento talebano, che in Afghanistan era combattuto dalla spedizione americana e che proprio in Pakistan aveva libertà di organizzarsi e penetrare poi in territorio afghano.
Washington continuava a versare il suo contributo a Karachi, nonostante che proprio dal Pakistan provenisse l’onda terroristica che infliggeva perdite agli americani in uomini e mezzi. Una situazione paradossale per le amministrazioni americane. Insomma, il Pakistan era alleato di Washington e, nello stesso tempo, foraggiava il terrorismo anti-americano. Una situazione assurda.
Ma la decisione di Trump non intende soltanto por fine al doppiogioco pakistano. Ciò avrebbe sicuramente un senso, ma la mossa va al di là della pura e semplice soluzione di una contraddizione.
Il Pakistan ora può fare soltanto un gioco, continuare a essere la retrovia del terrorismo talebano e di ogni altra sigla terroristica. Del resto, non è vero che il Pakistan ospitava Osama bin Laden, il capo di al-Qaeda?
Dal canto loro, oggi gli Stati Uniti hanno mano libera per intervenire direttamente nel Pakistan, dentro i territori che ospitano i talebani.
La decisione di Trump ha, però, un valore geopolitico ben più ampio. La sezione sud-occidentale del Pakistan confina direttamente con l’Iran, esattamente con il Sestan e Baluchistan, una delle province più povere dell’Iran, da cui è partita, insieme con altre province povere, la recente rivolta contro il potere centrale iraniano.
Trump ha affermato chiaramente che avrebbe sostenuto “a tempo debito” le ragioni della rivolta; ed ora, dopo aver saldato i conti con il Pakistan, ha la possibilità di usare quel corridoio per aiutare i rivoltosi, nonostante gli inevitabili contrasti con il regime pachistano.
L’Iran, oggi, è il nemico numero uno degli Stati Uniti. Infatti, il fine ultimo del progetto americano è il rovesciamento del regime degli ayatollah. L’Iran è stato ed è il principale esportatore di terrorismo nel Medio Oriente e oggi è la potenza leader di una vasta regione che sfocia nel Mediterraneo grazie al suo intervento in Siria a sostegno di Assad. Dopo il ritiro dei soldati russi, a seguito dell’accordo con l’Iran sul possesso da parte di Mosca di alcuni sbocchi importanti sul Mediterraneo, l’Iran è solo a gestire nella regione un grande potere politico in forma diretta o mediata. Da ciò nasce l’esigenza americana di utilizzare il corridoio pachistano-beluchistano per minare dall’interno il potere iraniano mediante il sostegno alla popolazione in rivolta, costituita dalla gente povera e dalle numerose minoranze etniche discriminate presenti in Iran.
Israele è estremamente interessato a questo eventuale progetto. Il pericolo più grave per Gerusalemme è l’Iran, il cui controllo, attraverso Hezbollah e altre milizie sciite, è diffuso tutt’intorno ai confini di Israele. Perciò, le recenti rivolte interne allo stato sciita sono giunte come un segnale molto importante per Gerusalemme e per Washington. Il sostegno che Trump potrà assicurare ai rivoltosi iraniani è decisivo per mettere sotto scacco il potere degli ayatollah e indebolire la loro presa su un territorio vastissimo ma sempre ribelle in molte sue parti.
Qualche tempo fa, Khamenei affermò spocchiosamente che entro venti anni Israele non sarebbe più esistito; è probabile, però, che molto prima sia proprio il paese della Guida Suprema a fare i conti con il proprio popolo.
Antonio Donno