A destra: Recep Tayyip Erdogan, un ponte tra terroristi islamici ed Europa
Cari amici,
quando era all’inizio di una grande carriera, ma già sindaco di Istanbul, Erdogan spiegò una volta che per lui la democrazia è come un treno (altre fonti dicono un autobus, ma la sostanza non cambia). “Quando sei arrivato alla fermata giusta, scendi” (http://www.economist.com/news/special-report/21689877-mr-erdogans-commitment-democracy-seems-be-fading-getting-train). Be’ la fermata giusta era per lui una presidenza della repubblica non formale, ma con poteri assoluti. Ed è sceso.
Io non so proprio se il tentativo di colpo di stato ai suoi danni denunciato nel luglio scorso ci sia stato davvero o meno. E’ certamente possibile che sia stato solo una messinscena, costruita per montare la macchina repressiva. O magari c’è stato davvero un tentativo da parte di chi capiva quel che stava arrivando, e questo tentativo mal combinato è stato un pretesto per accelerare rapidamente l’azione di Erdogan. O probabilmente la verità sta nel mezzo: un tentativo di golpe promosso da agenti provocatori. Una cosa è sicura: a partire dal luglio scorso la repressione non ha fatto che aumentare ed estendersi, dai seguaci di quello strano guru religioso (a sua volta islamista) Guhlen, che sta in America e che subito Erdogan ha incolpato per il putch a decine di migliaia di giudici, poliziotti, militari, giornalisti, insegnanti, politici anche ben lontani dalle posizioni di Guhlen, come da ultimo i leader del maggiore partito di opposizione che cerca di difendere le speranze dei curdi che si trovano ad essere loro malgrado sudditi turchi a poter vivere tranquillamente la propria identità e la propria cultura (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=64318). Ogni gruppo sociale, ogni istituzione, ogni impresa, ogni settore di opinione pubblica suscettibile di opporsi a Erdogan o anche solo vagamente indipendente è stato spazzato via. Gli arrestati, i licenziati, gli inquisiti sono decine e forse centinaia di migliaia.
E’ difficile trovare esempi recenti di repressioni così capillari e diffuse. Si può solo pensare a Pinochet, alle invasioni sovietiche di Ungheria e Cecoslovacchia, alla presa del potere di Hitler. La cosa che colpisce di più è l'acquiescenza generale. Ci sono state delle blande deplorazioni da parte europea e americana, Putin non ha certo scrupoli su questi temi e si è messo d’accordo in termini economici e strategici. Anche Israele non ha parlato, essendo in una situazione molto delicata di assedio territoriale e mediatico e avendo molto bisogno di una Turchia non apertamente ostile.
Del silenzio di Obama non c’è da meravigliarsi. Per l’islamismo in tutte le sue forme e le sue salse, ha sempre espresso simpatia. Nel 2009-2010 ha lasciato massacrare senza protestare il “movimento verde” di Teheran, forse la sola speranza da decenni di un ritorno di Teheran alla democrazia. Sapeva già chi avrebbe cercato di farsi amico. Non posso dire neanche di meravigliarmi dell’Unione Europea, che col suo cinismo ipocrita finge di essere attaccata ai valori della democrazia, anzi di far guidare le sue politiche solo da questi valori, non dagli interessi nazionali; ma poi pratica il servilismo diplomatico verso i regimi più violenti e oppressivi, purché le appaiono potenti: la Turchia e l’Iran, la Cina e l’Arabia Saudita, perfino i piccoli dittatorelli come Abbas. E però questo caso merita di essere sottolineato, soprattutto per chi si senza affezionato al “nobile ideale europeista”.
Il fatto è che noi, questo bisogna pur dirlo, proprio noi, noi con le nostre tasse, finanziamo Erdogan per 3 miliardi di euro l’anno. Certo, che i soldi dell’Unione Europea in Medio Oriente siano usati per scopi sporchi lo sappiamo, servono anche a pagare gli stipendi dei terroristi dell’Autorità Palestinese, contribuiscono all’armamento di Hamas e alla propaganda antisemita dell’UNRWA. Ma con Erdogan c’è una complicità più intima, in un certo senso più losca, perché gli diamo quei soldi per fare una cosa che noi (cioè i nostri governi e l’Unione Europea) in teoria neghiamo “nobilmente” di voler fare, cioè per limitare l’invasione dei clandestini islamici che preme da sud. Perfino ai più sfegatati nemici dell’autonomia culturale europea, persino ai Bergoglio e alle Merkel, infatti, è chiaro che non si può subire un’invasione indiscriminata che verrebbe non solo dalla Siria (da dove la fuga è comprensibile) ma dal Pakistan, dall’Afghanistan, dall’Iraq, da tutto il mondo islamico. Solo che invece di dirlo e di comportarsi di conseguenza, allestendo le difese che servono invece di andare a raccogliere i clandestini sulla sponda sud del Mediterraneo per offrire loro il trasporto, e finalmente dimettendosi per palese incapacità, i dirigenti europei pagano il violento di turno per risolvere i loro problemi.
E costui naturalmente li ricatta, vuole i soldi, vuole l’ingresso in Europa senza visti per i suoi sudditi (un’altra invasione). I leader europei dicono di sì, anzi la Merkel corre a tirargli la campagna elettorale (http://www.bloomberg.com/news/articles/2015-10-20/erdogan-s-golden-throne-for-merkel-sends-message-before-election). E dopo il golpe (o l’autogolpe o la messinscena di un golpe) se ne stanno tutti zitti, non gli tolgono i soldi, magari si prepwerano a dargli l’ingresso libero per i suoi in Europa. E presto qualcuno avrà il coraggio di dire che sì, la Turchia non è proprio una democrazia perfetta, ma per aiutarla a crescere bisogna farla entrare nell’Unione Europea.
Insomma di quelle decine o centinaia di migliaia di incarcerati, licenziati, torturati, siamo responsabili anche noi, o almeno i governanti che ci siamo scelti. E anche noi, proprio noi, che ci facciamo impietosire da ogni causa possibile, sulla Turchia stiamo zitti. Ci dilaniamo su un referendum che in sostanza conta poco se non per le manovre politiche di quelli che vogliono abbatere Renzi, ma dell’avvento di un nuovo regime fascista o pinochettiano a un’ora e mezza d’aereo da noi, proprio non ci interessa niente. Fatte le debite eccezioni, naturalmente, del tutto minoritarie, fra cui mi schiero anch’io.
Ugo Volli