A destra: la Dichiarazione Balfour
Cari amici,
vi confesso di non essere particolarmente interessato a compleanni, anniversari e ricorrenze - amenità che riempiono non solo le pagine di Facebook ma anche le pompose pagine culturali dei giornali più paludati. Un compleanno non marca certo la nostra vita così come le tendenze sociali non prendono il ritmo dei decenni (i “mitici” anni Sessanta...) né l’importanza di uno scrittore si misura sulla ricorrenza in cifra tonda del suo anno di nascita.
Ma qualche volta ha senso prendere spunto da un anniversario del genere per fermarsi a riflettere sulla storia. Voglio farlo oggi sul quasi-centenario (99 anni) che cade esattamente dopodomani, mercoledì 2 novembre, della cosiddetta “dichiarazione Balfour”, che in realtà era una lettera in cui il Segretario per gli Affari Esteri Britannico dichiarava, a nome del “governo di Sua Maestà”, “simpatia per le aspirazioni dell'ebraismo sionista” in questi termini: "Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni". (https://it.wikipedia.org/wiki/Dichiarazione_Balfour_(1917) ). E’ interessante notare che la lettera non era indirizzata al movimento sionista, o al suo presidente Weizmann che l’aveva insistentemente richiesta, ma diretta al barone Lionel Walter Rothschild, esponente più in vista della comunità ebraica britannica.
Lord Balfour
A parte la ricorrenza cronologica, la dichiarazione è tornata di attualità di recente per gli attacchi che ha subito da parte palestinista: in maniera un po’ grottesca Abbas ha dichiarato alle Nazioni unite che intendeva fare causa alla Gran Bretagna per questo atto politico e ha aperto una campagna di delegittimazione contro di essa (http://www.timesofisrael.com/palestinian-campaign-vs-balfour-shows-hostility-to-jewish-state-undimmed-after-100-years/), prontamente seguito dagli antisemiti inglesi (http://www.jpost.com/Diaspora/Jews-blamed-for-Holocaust-in-UK-event-panned-as-shameful-by-Israeli-embassy-470981). E’ del tutto evidente che attaccando la dichiarazione Balfour i palestinisti “moderati” dell’AP vogliono cercare di togliere legittimità alle basi stesse dello stato sionista, cioè quel processo di immigrazione che portò molti ebrei europei ad aggiungersi a quelli che già risiedevano in Israele, fino a raggiungere la massa sufficiente per sostenere uno Stato (http://www.worldjewishdaily.com/balfour-centennial.php). Vale naturalmente la pena di chiedersi che tipo di pace con Israele i palestinisti pretendono di cercare, se ne attaccano le basi stesse, quattro o cinque generazioni fa. La risposta è ovvia: non vogliono nessuna pace, se non quella dei cimiteri che seguirebbero a una loro sperata distruzione di Israele. Anzi, a giudicare dal loro comportamento storico (per esempio dalle devastazioni che compiono frequentemente sul Monte degli Ulivi), non ci sarebbe pace neanche allora, ma violenza e persecuzione postuma. Per fortuna la loro speranza è del tutto irrealistica.
Bisogna dire che anche questa campagna ha poco senso. La rinascita ebraica in Israele non fu certo conseguenza della dichiarazione Balfour. Nel 1917 la prima città per gli immigrati, Rishon Letzion, aveva 35 anni (essendo stata fondata nel 1882), come Zicharon Jaakov, dove già si produceva del buon vino; il porto di Haifa aveva vent’anni e dieci il collegamento ferroviario che portava in Egitto e a Istanbul; da 5 anni era iniziata la costruzione dell’università politecnica di Haifa e si era deciso di svolgervi l’insegnamento in ebraico, la lingua nuova e antica che Eliezer Ben Yehuda aveva imposto all’uso, con un lavoro iniziato nel 1881. Si stava svolgendo la seconda aliyà, l’ondata immigratoria che portò in Israele i fondatori dello stato, fra cui Ben Gurion che nel ‘14 aveva fondato un nucleo di resistenza militare e nel ‘17 fu costretto all’esilio americano. Il primo kibbutz era stato fondato nel 1909 sulla riva meridionale del lago di Tiberiade col nome di Degania, il villaggio del granturco. Vi era già nato nel 1915 Moshé Dayan. Insomma l’impresa sionista era in pieno svolgimento, con le sue durezze e difficoltà, ma anche con la sua straordinaria energia. C’erano contatti con gli arabi per una convivenza pacifica: un anno dopo sarebbe stato firmato un accordo fra il presidente dell’unione sionista Weizman e l'Emiro Faysal (figlio dello Sceriffo della Mecca e Re dell'Hegiaz al-Husayn ibn Ali) che riconosceva l’insediamento sionista in Terra d’Israele e l’indipendenza araba in quelli che oggi sono Siria, Iraq e Arabia Saudita: la sola vera possibilità di pace che fu distrutta dall’imperialismo anglofrancese e dalla presa del potere nel mondo arabo da parte di fanatici antisemiti come Amin al Husseini, nominato proprio dagli inglesi nel 1921 muftì di Gerusalemme.
Dunque l’importanza della dichiarazione non fu quella di provocare il ritorno degli ebrei europei alla loro terra, anche perché a partire dagli anni Venti, quando ottenne il Mandato di Palestina, la Gran Bretagna adottò una politica progressivamente sempre più filoaraba e contraria all’immigrazione. La dichiarazione servì però da base per la pronuncia della Società delle Nazioni (l’Onu del tempo) che stabilì il mandato britannico proprio al fine di far nascere una istituzione nazionale (national home) ebraica: è quello il primo fondamento giuridico dello Stato di Israele (nota bene: all’inizio su tutto l’attuale territorio di Israele, Giudea e Samaria, Giordania; dal 1922 gli inglesi ottennero di staccarne il 70% circa, cioè l’attuale Giordania, per destinarlo agli arabi della regione, e quindi tutto il resto, dal Giordano al mare, era stabilito come territorio ebraico).
La dichiarazione fu certamente motivata da questioni connesse alla guerra che si tratti della gratitudine per il lavoro chimico di Weizman sulla sintesi dell’acetone come vuole una storia diffusa o della volontà di propiziarsi la simpatia degli ebrei americani come vuole una versione più maligna - ma la dichiarazione è di novembre 1917, gli americani erano entrati in guerra in aprile e combattevano già in Veneto e nella Francia del Nord, dunque non c’era particolare bisogno di aiuti propagandistici; e del resto in quel tempo gli ebrei negli Stati Uniti erano pochi e generalmente poveri ed emarginati.
Ma essa comunque rappresenta una presa di coscienza del problema nazionale ebraico, che precede di una generazione la Shoà. L’Europa liberale vi riconosce che vi è una persecuzione in atto, che l’assimilazione non è la soluzione, che la patria ancestrale del popolo ebraico è il luogo dove risolvere questi problemi, nell’ambito del grande rimescolamento provocato dalla caduta dell’impero ottomano, che aveva dominato tutto il largo spazio della sponda sud del Mediterraneo. Appare possibile e ragionevole liberare gli arabi dal dominio imperialista turco e assegnare anche un territorio relativamente molto piccolo, per gli ebrei, come si pensava di dare spazio a stati curdi ed armeni. Così si prevedeva nel trattato di Sévres (https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_S%C3%A8vres), che fu sciaguratamente abbandonato sotto la pressione militare di Ataturk e il prevalere degli interessi imperialistici inglesi e francesi. Se la Gran Bretagna fosse stata seria nel rispettare la dichiarazione Balfour e avesse rispettato il trattato di Sévres, al Medio Oriente sarebbe stato risparmiato un secolo di sangue. Purtroppo non è andata così. Ma la linea per ottenere la pace oggi è ancora quella disegnata cent’anni fa.
Ugo Volli